Con il suffisso washing, da wash lavare, si apre un mondo: green washing ambientale, pink washing sul femminile, rainbow washing per Lgbt, cancer e medical washing sulle malattie con un trendissimo mental health washing in focus sulla salute mentale, blue washing sui diritti umani e via colorando. Questi neologismi, alcuni molto noti, rinviano ad una pratica di marketing, una strategia vera e propria per indurre i consumatori a comprare qualcosa attirandoli su temi sensibili e al tempo stesso è una tecnica delle aziende per schierarsi accanto a battaglie di interesse sociale ma soltanto per farsi belli, come facciata. Woke washing li riassume tutti, come anche social washing, e non c'è niente di etico. Sono delle operazioni che in tempi attuali, con sensibilità fortunatamente molto più alte di un tempo, su tematiche sociali, sono dei veri e propri branding marketing, delle pratiche tese a rafforzare il brand, la sua riconoscibilità e credibilità. Se fosse vero... perchè molto spesso non lo è.
C'è da dire che non è facile per un consumatore o un donatore avere certezza che il suo apporto economico, che pensa di dare a quella che ritiene essere una buona causa, vada realmente in buca, ossia a chi deve andare. Nel caso recente del pandorogate di Chiara Ferragni, al netto dei procedimenti in corso, il consumatore sa che ben poco è arrivato a chi doveva andare?
Ma come essere certi che comprando qualcosa vada effettivamente all'associazione, fondazione, ente, giusto? Le società hanno ormai certificazioni importanti, di sostenibilità ambientale, di codice etico (Safilo ha chiuso l'accordo con Ferragni per questo motivo) che sono fondamentali per stare sul mercato, per la trasparenza e per distinguersi. Per avere queste certificazioni bisogna superare step importanti e consumatori sempre più informati e consapevoli esercitano il loro potere di acquisto ma certo non tutti. Anche in termini bancari sta al correntista mettere i propri soldi per chi ad esempio non investe in società che fanno parte dell'industria delle armi. A monte c'è un patto tra società e utente su valori condivisi: non a parole, come strumento pubblicitario ma nei fatti.
Dal suo osservatorio dei trend che influenzano e modificano i consumi a livello globale, FutureBrand ha recentemente fatto un focus sul controverso pinkwashing: il Pink Ribbon in ambito marketing/comunicazione, vale a dire il "fiocchetto rosa" che accompagna iniziative a sfondo sociale o etico delle imprese è ovunque. Far leva sui bisogni dei consumatori, sfruttando soprattutto l'aspetto emotivo che lega pubblico e brand, è il segreto-non-segreto del marketing, secondo l'analisi di Elena Vardanega. Il tasso emotivo è ancor più elevato quando ci sono di mezzo iniziative legate alla salute, alla cura o al sostegno a malattie gravi e per due ragioni: la prima è che si tratta di temi di grande risonanza e, in secondo luogo, riescono a incanalare il desiderio delle persone di dare il proprio contributo, di dire di aver sostenuto una causa importante. Per questo, il fiocchetto rosa, il Pink Ribbon applicato ormai a un'infinità di prodotti, può trarre in inganno chi è convinto di fare la propria parte sostenendo una buona causa. Stessa cosa per il segno rosso che rinvia alla lotta ai femminicidi e alla violenza alle donne. Tutto si riconduce all'eticità della filiera ma non sempre è facile ricostruirla.
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