"Perché?" è la domanda chiave di ogni guerra, ci sentiamo impotenti, sopraffatti, immobili ma c'è qualcosa che ulteriormente atterrisce tutti e in ogni latitudine: vedere le immagini, esserci dentro, non solo titoli di un giornale o di un tg. E' straziante al limite del sostenibile "20 Days in Mariupol", il film che dal debutto al Sundance sta facendo man bassa di premi, l'ultimo il Bafta domenica scorsa, ed è candidato (favorito) per l'Oscar al miglior documentario. L'autore, Mstyslav Chernov, 39 anni è ucraino di Charkiv, un giornalista di gran razza dell'agenzia di stampa Ap, che nel 2023 ha vinto il Pulitzer Premio Public Service - Giornalismo per il bene pubblico per la copertura esclusiva dell'assedio di Mariupol e il Premio Breaking News Photography - per le immagini non filtrate sugli orrori della guerra in Ucraina. Da quella esperienza è nato il documentario, lo scenario è quello della città che per prima sperimentò l'assedio delle truppe russe nell'invasione che domani 24 febbraio compie tristemente due anni senza spiragli di soluzione. Mstyslav Chernov è appena arrivato a Los Angeles per partecipare alla campagna per gli Oscar e l'ANSA lo ha intervistato.
E' un film brutale, emotivamente forte, le lacrime non si fermano, forse troppo? "Ogni volta che lo rivedo piango sempre anche io, non ci sono filtri, è quello che mi sono trovato a vivere. Siamo abituati a film di guerra, a serie tv avvincenti, e siamo anestetizzati da un certo tipo di immagini ma quello - risponde Chernov - che si vede in 20 Days in Mariupol è vita vera, strazio vero, e questa differenza purtroppo la senti". Il film, distribuito capillarmente in Italia da Cineagenzia in collaborazione con Internazionale, racconta i primi 20 giorni dell'assedio alla città martire: Chernov e altri reporter Ap arrivarono non immaginando quello che sarebbe accaduto e rimasero intrappolati.
Mariupol sembra normale il 24 febbraio, passano gli autobus, le macchine, un via vai da giorno qualunque poi i famigerati carri armati con la Z entrarono rivolgendo i cannoni su ogni obiettivo senza distinzione tra militare e civile. La carneficina è tristemente nota: scorrono le immagini di vita strappate, corpi dilaniati, persone in crisi di panico, sanitari che piangono per non riuscire a salvare bambini, operazioni senza anestesie in condizioni disumane, ovunque brutalità, disperazione.
Due anni di invasione di Putin, quali sentimenti prova? "Due anni che si aggiungono ad altri otto, non dimentichiamolo, ma il 24 febbraio è la data più triste. Per sopravvivere bisogna continuare a sperare, combattere ancora. Il supporto delle persone all'Ucraina è qualcosa che ci conforta e ci spinge a non mollare, sarà una utopia? Mi auguro di no, al momento restiamo in una catastrofe, con notizie pessime anche in questi giorni".
Chercov lei è un reporter di guerra, ha filmato la Siria, l'Iraq, Gaza, ci sono differenze? "Ogni storia è diversa ma l'impatto devastante dei conflitti sui civili no, le tragedie umane sono ugualmente degne della nostra attenzione e 20 Days in Mariupol porta questo messaggio universale 'torniamo ad essere umani'".
Il film è importante anche per sottolineare il ruolo della stampa, in un'epoca buia in cui da Navalny ad Assange non arrivano segnali confortanti. "Ci sono stati moltissimi morti tra i giornalisti in tutto il mondo, un'escalation che riflette una tendenza, soffocare il valore fondamentale della libertà di stampa. Supportare il giornalismo libero, specie nei paesi totalitari è decisivo".
Un anno fa sul palco degli Oscar per il documentario di Daniel Roher su Navalny salirono la moglie Yulia e i due figli e oggi piangiamo la morte dell'oppositore di Putin. "E' urgente continuare a parlare di quello che accade. Il percorso di 20 Days in Mariupol, ogni riconoscimento avuto, non era pensabile.
E' un momento eccezionale per i documentari, capire è fondamentale. La notte degli Oscar per me è un momento per continuare a gridare aiuto per la mia Ucraina, sono a Los Angeles ma il mio cuore è la nel mio paese". Sta già lavorando ad un nuovo progetto? "Si e sarà ancora sull'Ucraina, una storia anche personale, identitaria, vorrei che i bambini del mio paese tornassero a sperare".
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