Ritardare gli interventi durante
la pandemia ha aumentato l'aggressività, le metastasi e il
rischio di recidive nei tumori tirodei: diventa quindi cruciale
per pazienti affetti da questo tipo di neoplasie entrare in sala
operatoria entro 3-4 mesi dalla diagnosi. E' quanto emerge da
una ricerca endocrinologica internazione guidata dai professori
Fabio Medas e Pietro Giorgio Calò, del dipartimento di Scienze
chirurgiche dell'ateneo di Cagliari e pubblicato in questi
giorni su Lancet.
Coinvolti nello studio retrospettivo, con l'analisi dei dati
precedenti e successivi alla pandemia, 157 reparti di chirurgia
di 49 nazioni e quasi 23 mila pazienti con noduli tiroidei dalla
citologia indeterminata. In totale oltre 160 autori e quasi 350
collaboratori di tutto il mondo. "Dallo studio - spiegano i
ricercatori cagliaritani - è emerso che i pazienti operati
durante l'ultima fase del nostro studio, corrispondente al
periodo in cui si ha avuto una attenuazione della pandemia (da
giugno a dicembre 2021), presentavano, rispetto ai pazienti
operati prima della pandemia, carcinomi tiroidei maggiormente
aggressivi, in particolare con dimensioni maggiori, con una
maggiore incidenza di metastasi linfonodali e con un maggior
rischio di recidiva locale".
"È pertanto possibile - sottolineano che il ritardo negli
interventi causato dalla pandemia abbia comportato una maggiore
incidenza di tumori tiroidei aggressivi, anche se non bisogna
scartare altre ipotesi, per esempio l'effetto dell'infezione da
Sars-CoV-2 che potrebbe aver promosso la progressione di tumori
tiroidei già esistenti, oppure una maggiore attenzione nel
selezionare i pazienti con noduli con caratteristiche
maggiormente aggressive agli esami preoperatori". "È pertanto
necessario - concludono i responsabili dello studio - che gli
interventi per questi tipi di noduli tiroidei non vengano
rimandati e posticipati, anche in caso di future restrizioni, ma
vengano operati in tempi ragionevoli, normalmente non oltre i
3-4 mesi dalla diagnosi".
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