Mamma Nadja ha gli occhi stanchi ma sempre vigili sul suo bambino, Kirill, neanche 4 anni, che gioca nel letto affianco nel reparto di Oncoematologia dell'ospedale Bambino Gesù, dove è arrivato mercoledì scorso.
Prima di lui sono arrivati altri 3 mila bambini da inizio guerra, per i traumi delle armi ma anche per le tante malattie che nell'emergenza non si e' riusciti più a trattate negli ospedali delle citta' attaccate. Sul volto del piccolo ancora i segni di un viaggio di 48 ore, due giorni interi, a bordo di un'ambulanza per le emergenze, che l'ha trasportata da Kiev a Roma.
Un viaggio della speranza a cui Nadja si è aggrappata con tutte le forze che le erano rimaste, per salvare la vita proprio al bambino, di poco più di tre anni, affetto da neuroblastoma metastatico. Si tratta del tumore solido più frequente in età pediatrica dopo quelli cerebrali e nei Paesi più avanzati per le forme metastatiche dopo i 18 mesi vita con le cure la guarigione si attesta intorno al 50%: in sostanza riesce a guarire un bimbo su due. La storia di Nadja, che lavorava come insegnante in una scuola elementare, a un anno dallo scoppio del conflitto in Ucraina è una storia, simbolica, di come dalla guerra si continui a fuggire, in cerca di risposte ai bisogni di cura e di una nuova normalità. "Durante il viaggio, lunghissimo, pregavo solo che ci potessimo salvare. Spero che Dio benedica le mani dei medici e ci dia la possibilità di sopravvivere - spiega Nadja all'ANSA con l'aiuto di un mediatore culturale - quando siamo arrivati in reparto il medico ci ha spiegato che la situazione era complessa, ma nutriamo ancora una speranza seppur flebile". La guerra si è intrecciata alla situazione sanitaria di Kirill, portando secondo la valutazione dei medici dell'ospedale Bambino Gesù, specificamente la dottoressa Maria Antonietta De Ioris, Dirigente medico di Oncoematologia, presumibilmente "a un ritardo diagnostico. Kirill aveva delle tumefazioni craniche già settembre, ma la diagnosi è arrivata a novembre. In una neoplasia di questo tipo anche i mesi possono fare la differenza". Mamma Nadja della diagnosi ricorda un linfonodo, il cui ingrossamento si pensava fosse dovuto a un'infezione da Covid, poi le lesioni craniche e la debolezza, il trasferimento a a 100 chilometri da casa, nella città di Ivano Frankivsk, dove è arrivato il responso, condiviso con altri ospedali del Paese. Ricorda la paura dei bombardamenti, specie a Kiev, e il rumore delle sirene che segnavano l'interruzione di tutto, persino dei trattamenti di Kirill. Al Bambino Gesù, dopo aver ristudiato il caso e ridato uno stadio al tumore, hanno iniziato una chemio più aggressiva, con l'idea, se il corpo del piccolo risponde bene alle cure, di ricorrere a quella ad alte dosi (l'autotrapianto di cellule staminali emopoietiche). Kirill gioca nel suo lettino, con in testa dei grossi cerotti e la flebo attaccata, sembra tranquillo ma chiede spesso dei fratelli. Specie di uno di 13 anni rimasto in Ucraina col papà, poi ha anche una sorella di 20 andata in Olanda. "Tutti i giorni chiede dov'e il fratellino che lo protegge, spero che possano venire - conclude mamma Nadja, che ha fatto il viaggio verso l'Italia con la sorella ed è ospitata tramite la protezione civile in un hotel - e vivere la guerra è difficile moralmente, psicologicamente ed economicamente. Alcuni miei ex compagni scuola, vicini, conoscenti e tanti amici non ci sono più perché hanno combattuto per la libertà". Mentre Nadja parla degli orrori della guerra, Kirill ci batte un cinque, di coraggio.
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