Sono la grande speranza degli ultimi anni.
Tuttavia, per molti pazienti le nuove terapie per l'Alzheimer che dovrebbero arrivare a breve potrebbero tramutarsi in una doccia fredda. Non tutti i malati potranno infatti assumerle. È questo il timore espresso dagli esperti riuniti alla vigilia della Giornata mondiale per l'Alzheimer (21 settembre) nel corso di una conferenza stampa al Senato, promossa dall'intergruppo Parlamentare Alzheimer e Neuroscienze.
"Non dobbiamo trasmettere inutili illusioni", ammette Raffale Lodi, direttore dell'IRCCS Istituto Scienze Neurologiche di Bologna, coordinatore della rete IRCCS delle neuroscienze e della neuroriabilitazione. "Le terapie sono efficaci ma solo su una parte dei pazienti".
Una delle sfide sarà perciò proprio questa: capire chi dovrà prendere i farmaci. "L'Italia è stato il primo Paese al mondo a porsi questo problema", dice Paolo Maria Rossini, Responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell'IRCCS San Raffaele Roma. Nel 2018, su sollecitazione della comunità scientifica, il ministero della Salute ha lanciato il progetto di ricerca Iterceptor che sta cercando di capire se alcuni biomarcatori, rilevati nelle primissime fasi in cui si osserva un decadimento delle funzioni cognitive, sono in grado di distinguere chi si ammalerà di Alzheimer e chi no. "A breve potremo dire quale è la combinazione di marcatori che prevede chi è a rischio Alzheimer. Sarà così possibile iniziare il trattamento quando il cervello ha una buona riserva cognitiva e non quando ormai è come una piantina che non si annaffia da mesi", aggiunge Rossini.
Tuttavia potrebbe non bastare: "Senza interventi organizzativi rischiamo di avere alcune realtà italiane che garantiranno l'accesso alle cure e altre in cui ciò non si realizzerà. Ci aspetta un nuovo, importante, lavoro", conclude Annarita Patriarca, presidente dell'intergruppo Alzheimer e Neuroscienze, insieme alla senatrice Beatrice Lorenzin.
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