Il tumore del pene interessa uno o
due abitanti su 100.000 in Italia, ma nella sola regione
Piemonte si stima che almeno 80 uomini, generalmente adulti o
più raramente giovani, vengano operati in un anno. I fattori di
rischio, come la fimosi, malattie dei genitali come il lichen e
l'infezione da Hpv (che si riscontra in un terzo dei casi) sono
tutti arginabili con visite preventive. Si assiste invece a un
importante ritardo diagnostico, documentato dal 20'% di malati
con malattia avanzata o metastatica, dovuto alla ritrosia del
maschio di dichiarare patologie che coinvolgono la sfera intima
e alla mancanza di un'efficace prevenzione per le patologie
andrologiche. È stato uno degli argomenti principali del
Congresso internazionale "i-Mars - International Masterclass in
reconstructive surgery", organizzato da Paolo Gontero, direttore
della clinica urologica universitaria dell'ospedale Molinette
della Città della Salute di Torino, e coordinato da Marco
Falcone, urologo della Città della Salute.
Oltre a essere una malattia caratterizzata da una peculiare
aggressività oncologica, la sua cura prevede un intervento
chirurgico molto demolitivo, che comporta nel migliore dei casi
un'asportazione parziale del pene, ma non di rado la necessità
di un intervento radicale, con conseguenti risvolti negativi sia
psichici che sociali. "Il tumore del pene è il tipico caso di
una patologia dove un percorso di cura vincente non può
prescindere dalla stretta collaborazione tra diverse figure
professionali, che sono in grado di integrarsi in una équipe
multidisciplinare per affrontare una chirurgia altrimenti
impossibile da realizzare" afferma Gontero. "L'evoluzione della
chirurgia va nella direzione di tecniche mini-invasive, che
consentono interventi più conservativi associati a ricostruzioni
estetiche in grado di limitare in maniera significativa
l'impatto psicologico sul paziente e incrementando
significativamente la qualità di vita" aggiunge Falcone,
responsabile scientifico dell'evento.
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