E’ nelle rocce che si trovano nell’area in cui avvengono i terremoti, più che nelle scosse che li precedono, che si nascondono i possibili segnali che possono annunciare un terremoto. Lo indica la ricerca italiana pubblicata sul Journal of Geophysical Research e basata sui dati relativi all’attività sismica in California analizzati da Sapienza Università di Roma, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche e Università di Atene.
“I risultati della ricerca ci spingono a superare il concetto di ‘foreshock’ – osservano i ricercatori, riferendosi ai sismi che possono precedere un terremoto - per spostare l’attenzione sulle condizioni di stabilità dei volumi rocciosi in cui la sismicità si verifica”. La ricerca ha cercato di rispondere a domande molto diffuse, come capire se esistono segnali precursori dei terremoti o se tanti terremoti di bassa energia possano essere considerati o meno premonitori di forti sismi.
La ricerca, coordinata dal presidente dell’Ingv Carlo Doglioni e che ha come primo autore Davide Zaccagnino del dipartimento di Science della Terra della Sapienza, ha cercato le risposte analizzando la sismicità nella California negli ultimi 30 anni. Combinando modelli teorici e analisi statistiche. la ricerca ha evidenziato che i cosiddetti foreshock, cioè i terremoti di lieve e moderata entità che possono precedere i terremoti più violenti, “tendono a diffondersi su aree più grandi, hanno magnitudo con maggiore variabilità e sono più numerosi ed energetici degli sciami, ovvero di quei gruppi di terremoti caratterizzati da magnitudo contenute che non evolvono in un forte terremoto”. Foreshocks e sciami sono invece indistinguibili dal punto di vista della durata, dell'intensità e della frequenza degli eventi.
E’ emerso così che “in presenza di gruppi di terremoti numerosi ed estesi su superfici significative, le probabilità che una attività sismica minore possa culminare in un evento maggiore sia più elevata che in altre condizioni”.
L’ipotesi dei ricercatori è che i volumi di roccia sotto stress inizino progressivamente a destabilizzarsi a vicenda su periodi e aree più o meno estesi, generando piccoli eventi. Maggiore è l'area sulla quale i terremoti avvengono, più alte sono le probabilità che si generi un terremoto in grado di coinvolgere il sistema di faglie instabili nella sua intera estensione. “Si tratterebbe dunque – si legge nella nota - di un meccanismo di feedback a cascata, in cui la storia del rilascio di energia negli eventi precedenti è in grado di determinare i terremoti futuri, al di là delle condizioni di stabilità locale delle faglie”.
Se i risultati di questa ricerca fossero confermati, allora “sarebbero limitate le speranze di poter stimare la probabilità di un grande evento sismico a partire dalle caratteristiche della sismicità precedente; al contrario – osservano i ricercatori - si renderebbe necessaria una caratterizzazione dello stato di stabilità dei sistemi di faglie”. Questo per comprendere quali siano le possibilità di un piccolo sciame di evolvere in una vera e propria sequenza sismica. A supporto di questa ipotesi ci sono numerosi casi documentati di grandi terremoti avvenuti senza essere preceduti da foreshock o preceduti da una riduzione dell'attività sismica, come nel caso del terremoto di Amatrice nel 2016.
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