Se hai scelto di non accettare i cookie di profilazione e tracciamento, puoi aderire all’abbonamento "Consentless" a un costo molto accessibile, oppure scegliere un altro abbonamento per accedere ad ANSA.it.
Ti invitiamo a leggere le Condizioni Generali di Servizio, la Cookie Policy e l'Informativa Privacy.
In evidenza
In evidenza
In collaborazione con APT Basilicata
MATERA - "Nce simmo a la partenza/ Io mme ne vaco, addio/ Napule, bello mio/ Non te vedraggio cchiù/ Quanto nc'è de cchiù caro/ Dinto a te se 'nzerra/ Addio, addio/ 'No paraviso 'nterra / Napule mio, si' tu". C'è tutto lo strazio della partenza, la certezza che nulla sarà più come prima, la nostalgia che già diventa groppo alla gola nei versi di questa Addio Napole, prima canzone autoriale che parla di emigrazione e risale a metà '800 di cui Roberto Murolo fece una splendida interpretazione. Anche la musica, che testimonia il dolore del migrante e ne lenisce la pena, è una delle grandi protagoniste a Roots-In, borsa internazionale del turismo delle origini in corso a Matera, anche grazie all'incontro musicato "Cento lire: canti di lontananza, desiderio e ritorno" tenuto dal musicista e curatore d'arte contemporanea Fabio Lacertosa.
"Basta parlare con qualche nonno o nonna un po' anziani - dice - e scoprire che quei canti appartengono al vero dna di tutti gli italiani. Canti appena pre o post unitari e dei primi anni del secolo che sono rimasti dentro di noi, più di quello che crediamo. Del resto il vero momento in cui gli italiani divennero italiani fu nel 1915-18 quando nelle interminabili ore passate in trincea, aspettando di andare a morire, un lucano scambiava con un friulano, un piemontese con un siciliano, un veneto con un campano, anche loro al fronte tutti lontani da casa. Si cantava per farsi coraggio, per consolarsi della morte di un amico, per scacciare la nostalgia. E questo è emozionante.
Si è creata una mappa di relazioni a partire dai canti che è come analizzare un malato - dice Lacertosa - non dal punto di vista dei gran dottori ma dei fisioterapisti. Con questi canti di emigrati e di gente lontana da casa noi andiamo a mettere le mani nei nervi scoperti, nei muscoli contratti dell'oralità".
Del resto quanto queste note siano sappiano toccare i cuori italiani e non lo dimostrano, come fa notare Lacertosa, il tifo quasi da stadio negli anni '80 quando Luciano Pavarotti cominciava le prime note di Torna a Surriento, oppure ancora prima i mesi in classifica di Elvis Presley, con 'O sole mio. Il viaggio tra le canzoni della radici, dove "la nostalgia è vissuta come passione" e dove "il dolore per il distacco diventa lancinante" continua con un altro brano meno conosciuto del 1918, poi reinterpretato da molti cantanti tra cui Claudio Villa, 'Ncopp'all'onna. In questo caso l'autore spiega di essere in mezzo al mare che le cui onde sembrano più verdi delle foglie e, in quella pace irreale, voga e vogando si dimentica del mondo e crea una ninna nanna in cui si augura di addormentarsi e di sognare e di morire con quel bel sogno. "Nonna, nonna, /'ncopp'a ll'onna, /comm'è bello 'int'â varca a durmì./ Doce è 'o suonno / ca mme sonno./Ah, putesse, /sunnanno, murì". Ancora nostalgia ma in un canto dolce che trasfigura il dolore. Lacertosa spiega al pubblico, attento e con qualche occhio lucido, che la canzone napoletana vince nel mondo ed "è un bagaglio pazzesco che abbiamo noi italiani - dice ridendo - senza aver fatto nulla nella vita. Abbiamo il bagaglio di Michelangelo, di Leonardo, di una marea di roba e poi della musca napoletana. Tutto il mondo sa che siamo così, che siamo poetici e sappiamo cantare l'amore e il dolore in questo modo. La musica napoletana è un affronto culturale pazzesco alla morte, tra morte e sogno i poeti un po' ruspanti cercano di tradurre gli elementi che vengono dal popolo in un filtro di cultura altissima".
Il viaggio cintinua passando per le canzoni delle mondine e per la ballata piemontese Mamma mia, dammi cento lire. L'inizio giocoso non deve ingannare: la fanciulla otterrà i soldi per partire e andare in America ma subirà la sorte più tragica dell'emigrante ovvero il naufragio e la morte in mare e amaramente dirà: "I miei capelli son ricci e belli, / L'acqua del mare li marcirà" e ancora "Il mio sangue è rosso e fino, /i pesci del mare lo beveran". In ultimo sale sul palco il giovane cantante Maxi Manzo figlio di italiani arrivati a Buenos Aires dall'Abruzzo e dal Molise più di 50 anni fa. La sua canzone più toccante è "El vestido de Dora" in cui racconta della sua nonnina che era così povera da non avere un vestito per la messa che le veniva prestato dai vicini.
In collaborazione con APT Basilicata
Ultima ora