(di Roberto Nardi)
"In tempo di guerra è necessario e
urgente che i saggi, gli artisti, l'aristocrazia del pensiero
facciano argine alla catastrofe incontrandosi, parlandosi,
misurandosi nella dialettica". Lo ha detto il presidente della
Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, rivendicando il
ruolo che l'ente culturale svolge come "strumento di pace", come
agone dove misurare la vicinanza tra le culture, i popoli, le
religioni e le più irriducibili differenze".
La stretta attualità geo-politica, dopo la passata edizione
segnata dalla guerra in Ucraina e il padiglione russo rimasto
chiuso, è entrata con forza nelle vicende dei primi giorni di
vernice della 60/a Esposizione Internazionale d'arte della
Biennale, "Stranieri ovunque", a cura di Adriano Pedrosa, con la
decisione dell'artista Ruth Patir e della curatrici, Mira
Lapidot e Tamar Margalit, di non aprire il padiglione israeliano
"sino a che non sarà pattuito un cessate il fuco e non saranno
liberati gli ostaggi" in mano di Hamas.
Buttafuoco, nel corso della conferenza stampa, all'Arsenale,
in vista dell'apertura al pubblico dal 20 aprile (la mostra
resterà aperta fino al 24 novembre) ha parlato della questione:
"Il padiglione d'Israele che decide di non aprire, doppiamente,
totalmente, nell'assoluto della verità capovolge l'atto estremo
scelto dall'artista nel mettersi in opera al servizio della
verità: il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. E
questo, per dirla con Magritte, non è un padiglione, è un fatto
d'arte, è il genio dell'arte che sa trovare risposta".
La questione Palestina, oltre che su alcune opere in mostra,
è comparsa anche in una delle tante borsette, pronte a contenere
cataloghi, depliant, mappe della mostra e dei padiglioni
nazionali, che accompagnano le marce verso l'arte compiute da
migliaia di visitatori.
Poco dopo l'apertura, si sono formate lunghe code, oltre che
davanti al Padiglione Centrale e all'Arsenale, davanti ai
padiglioni ai Giardini tradizionalmente di richiamo: Germania,
Gran Bretagna e Francia. Se la prima prosegue il cammino di
domande sullo stesso spazio del padiglione, Julien Creuzet ha
riempito lo spazio francese di video, fili colorati, musica. Un
luogo all'insegna dell'ambiente che si trasforma in esperienza
visiva e sensoriale.
Sono complessivamente una novantina i padiglioni nazionali,
distribuiti anche in giro per tutta Venezia. Tanti sono aperti,
altri non si sa quando lo saranno, ma nei prossimi giorni,
finita l'ubriacatura di vernissage e appuntamenti ai Giardini e
Arsenale, tanti appassionati cominceranno a perdersi tra le
calli. Un labirinto d'arte a cui Venezia è abituata.
Tornando ai Giardini, la Russia ha dato il padiglione alla
Bolivia. In un quadro di domande sui punti chiave della mostra
di quest'anno, migrazione e decolonizzazione, si inserisce
quello olandese, mentre la Spagna ha allestito la Pinacoteca
Migrante Art gallery. Per restare ai Giardini, forte interesse
per il padiglione degli Stati Uniti con le opere di Jeffrey
Gibson, di origine Cherokee. Uno spazio che l'artista ha elevato
a emblema di una cultura inclusiva di realtà e culture diverse.
Mentre si formava una lunga coda davanti all'ingresso, si è
alzata la vivace, pacifica protesta di un gruppo di
artisti-attivisti contro il padiglione d'Israele con il lancio
di volantini con la scritta "No death in Venice No to the
genocidi Pavillion".
Tanti anche all'Arsenale i padiglioni nazionali, tra cui
quello ucraino. Al Padiglione Italia con l'opera Due qui/To Hear
di Massimo Bartolini, con la collaborazione di tre musicisti e
due scrittori, c'è la possibilità di vivere un momento segnato
da tre fasi: contemplazione, ascolto e condivisione. Un lavoro
complesso, affascinante nella sua essenza, che sembra parlare di
io e di noi.
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