LONDRA (di Alessandro Logroscino) - Un accordo di libero scambio all'ultimo tuffo spuntato come un regalo di Natale, utile ad alleggerire i contraccolpi della Brexit su molti Paesi europei, ma soprattutto sul Regno Unito, in un tempo già segnato dallo tsunami Covid. E a tirar fuori dalla peste, almeno per ora, un Boris Johnson dato spesso in passato per spacciato dai detrattori con prematura convinzione. Tribunizio, controverso, eccentrico come pochi altri (e non solo per la scapigliata chioma bionda), il 56enne primo ministro Tory, sofisticato quanto spregiudicato figlio dell'establishment pronto a toccare all'occorrenza le corde del populismo e magari a giocare con la verità, chiude con l'ennesimo colpo di teatro della carriera un 2020 difficile.
Vissuto sulle montagne russe. Un anno nato sotto il segno del trionfo elettorale che nel dicembre precedente lo aveva blindato a Downing Street, forte di una mega maggioranza d'una novantina di seggi assicurata alla Camera dei Comuni al Partito Conservatore sulla scia della promessa di condurre in porto una volta per tutte l'addio all'Ue (Get Brexit Done). E che in seguito gli avrebbe portato in dono sul fronte personale pure il sesto figlio (ufficiale), messo al mondo dalla giovane compagna e futura terza moglie Carrie Symonds. Ma impantanatosi poi per mesi fra polemiche innescate dall'oscillante azione del suo governo, dallo stallo estenuante nei negoziati sui rapporti futuri con Bruxelles e - last but not least - dalla gestione contestata a più riprese di una pandemia capace di colpire l'isola in modo micidiale: con un totale di morti in cifra assoluta secondo al momento in Europa, di poco, solo all'Italia. Pandemia che del resto non ha risparmiato BoJo in persona, drammaticamente, verso Pasqua. E su cui in ultimo si è abbattuta la cosiddetta variante inglese del coronavirus, mutazione diffusasi giusto in queste settimane a ritmo accelerato fra Londra e il sud dell'Inghilterra (anche se non è affatto chiaro se originata sull'isola o altrove).
Un guaio dopo l'altro contro cui poco ha potuto l'ottimismo della volontà (o della retorica) in salsa johnsoniana. Tanto più poiché sovrastato nel giudizio dei più dalle incertezze, dalle inversioni di rotta, dai flop veri o presunti che gli oppositori hanno attribuito al premier brexiteer, al suo governo, al suo litigioso entourage, decapitato fra l'altro di recente dell'ex eminenza grigia Dominic Cummings. In un quadro che in effetti resta come minimo grigio per il futuro immediato o a medio termine del primo ministro e dell'isola che fu cuore d'un impero; e su cui tuttavia il deal della vigilia di Natale arriva come un balsamo, spendibile in termini di comunicazione, se non proprio di sostanza, come promessa mantenuta per quanto tardiva. Un'intesa cui Boris sembra abbia dato il via libera dopo gli ultimi, sfibranti compromessi, con un ordine perentorio ("Chiudi il deal, Frosty") al suo irriducibile negoziatore di fiducia e consigliere per la sicurezza nazionale in pectore: il diplomatico e neo lord David Frost, veterano di Bruxelles quanto euroscettico convinto (a differenza del predecessore Ollie Roberts) malgrado la cultura cosmopolita e la passione per gli studi di storia francese medievale.
Un deal che certo non significa 'soft Brexit' a dispetto di qualche malumore, pare già rientrato, fra i super falchi euroscettici dello European Research Group nella parrocchia Tory, e che comporterà comunque cambiamenti e rotture, a partire dalla fine della libertà di movimento delle persone, con nuove regole draconiane sull'immigrazione. Né cancella le incognite e le stime negative (quanto meno iniziali) legate al ritorno di controlli doganali parziali dal primo gennaio, alla sorte di settori cruciali come i servizi finanziari, alle previsioni del Pil britannico indicate in discesa per diversi anni a venire. Ma che se non altro allontana lo spettro del caos ai confini, dei dazi e dei rischi per l'approvvigionamento di prodotti di base d'importazione (dagli alimentari ai farmaci), d'intoppi immediati e diffusi che sarebbero stati in grado di far sembrare una passeggiata di salute le grane appena causate sulla rotta Dover-Calais dalla semplice chiusura temporanea di un paio di giorni dei transiti deciso dalla Francia per ragioni di cautela sanitaria. E allontana altresì il suono di quegli scricchiolii anticipati della poltrona di Johnson che commentatori ostili pronosticavano (o pregustavano) da mesi: evocando entro primavera una fantomatica 'Borisexit' rinviata ora - chissà - a data da destinare.
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