(di Mattia Bernardo Bagnoli)
"Fare di tutto per porre fine
alla guerra nel 2025 attraverso la via diplomatica" ma partendo
da "un'Ucraina forte". Il presidente Volodymyr Zelensky, a pochi
giorni dal simbolico traguardo dei 1000 giorni di conflitto,
evoca sempre di più l'exit strategy con, però, i distinguo di
sempre: negoziare va bene ma solo se non significa capitolare,
ovvero accettare le condizioni di Vladimir Putin. E dal G7 -
all'indomani della telefonata tra Olaf Scholz e il presidente
russo, che ha fatto infuriare Kiev - arriva l'ennesima
manifestazione di sostegno, con la promessa di restare al suo
fianco "per tutto il tempo necessario".
Zelensky ringrazia i partner e in particolare Giorgia Meloni,
presidente di turno del G7, ma sa benissimo che sono parole
scritte sulla sabbia al tramonto in attesa dell'alta marea
chiamata Donald Trump. Al di là di cosa contenga davvero il suo
sbandierato piano di pace (nessuno lo sa veramente), se
Washington dovesse tagliare gli aiuti l'Europa si troverebbe
davanti ad un dilemma: lascia o raddoppia. Ai Consigli Affari
Esteri e Difesa di lunedì e martedì i 27 inizieranno a studiare
nei dettagli i vari scenari, passando attraverso un pranzo
dedicato appositamente all'analisi dei rapporti con gli Usa.
Prendere il posto degli Stati Uniti sul fronte degli aiuti
militari significa infatti moltiplicare per due i contributi
annuali - ad oggi circa 20 miliardi, sostenuti in gran parte
dalla Germania - e in un momento in cui, per giunta, l'economia
non va proprio benissimo. Al tempo stesso, il crollo di Kiev non
è un'opzione per molti Stati membri, perché rappresenterebbe una
minaccia esistenziale alla sicurezza.
Non ci sono solo le divisioni di Mosca ai confini della Nato
a far paura. I dati d'intelligence stimano che, se il Paese
finisse davvero in mano ai russi, circa 10 milioni di persone
fuggirebbero in Europa, con un esodo di proporzioni bibliche.
Che il Cremlino ci riesca è considerato "improbabile" perché gli
mancano i numeri sul campo ma, allo stesso tempo, lo stesso
Zelensky confessa apertamente ormai che le truppe sono
"stanche", i rimpiazzi "tardano" a causa delle mancate consegne
di armi e mezzi dai partner e le "ritirate" in certi quadranti
sono possibili per salvare la vita dei soldati. Insomma, c'è il
timore che si sia arrivati a fine corsa e dunque l'Europa cerca
una strada, anche per non lasciare il boccino in mano al solo
Trump. Il tycoon vuole chiudere la guerra in Ucraina e a breve
sceglierà 'un inviato per la pace': per il ruolo si è fatto
avanti Boris Epshteyn, un russo del team legale del presidente
eletto, che non sembrerebbe proprio super partes. Martedì,
intanto, a Varsavia, si terrà un incontro del triangolo di
Weimar nel formato allargato e dunque parteciperanno, oltre ai
ministri di Parigi e Berlino, anche quelli di Regno Unito,
Italia e Ucraina (sarà inoltre presente anche l'alto
rappresentante Ue designata Kaja Kallas).
Radoslaw Sikorski, capo della diplomazia polacca, riferendosi
alla telefonata Scholz-Putin, ha detto che "le cose stanno
accelerando" dichiarandosi poi soddisfatto che il cancelliere
tedesco abbia ribadito il principio "nessuna decisione
sull'Ucraina senza l'Ucraina". "I colloqui più importanti su
questa crisi si terranno a Varsavia", ha sottolineato. Certo,
c'è anche chi ritiene che la telefonata di Scholz a Putin vada
letta puramente in chiave "pre-elettorale", perché il
cancelliere vuole accreditarsi come il leader anti escalation. E
Putin è ben felice di seguirlo. "È vantaggioso per lui sedersi
al tavolo, per mettere fine all'isolamento politico costruito
dall'inizio della guerra", ha accusato Zelensky. "Ma solo per
parlare e non per mettersi d'accordo".
"La Russia - chiosa il G7 - resta l'unico ostacolo ad una
pace giusta e duratura". Mosca, al momento, spinge sia nel Kursk
(non vuole che finisca in eventuali trattative) dove sono
arrivati i rinforzi nordcoreani, di mezzi e uomini, sia nel
Donbass, dove punta a conquistare lo snodo di Pokrovsk. Il più
possibile, insomma, prima che s'insedi Trump. Poi si vedrà.
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