Determinata, spesso cocciuta, Theresa May è stata la premier della Brexit. Quella Brexit che fino all'ultimo ha cercato testardamente di condurre in porto e che alla fine l'ha fatta naufragare. Ministro dell'Interno di lungo corso divenuta primo ministro nel luglio 2016, dopo il referendum britannico sull'uscita dall'Unione costato la poltrona al suo predecessore David Cameron, May ha tentato fin dall'inizio di ostentare sicurezza per colmare una certa mancanza di carisma. Osteggiata da molti nel partito, a partire dal suo ex ministro degli Esteri Boris Johnson, colpita da una serie di dimissioni eccellenti a causa di scandali e dissensi vari, la leader Tory non si è comunque mai fermata di fronte a ostacoli che apparivano via via sempre più grandi. Fino alla decisione odierna di gettare la spugna.
C'è chi l'ha paragonata ad Angela Merkel. In comune con la cancelliera tedesca, oltre allo stile sobrio (per alcuni piuttosto grigio) e alla tenacia, la (ex) signora di Downing Street ha del resto i geni d'un padre ecclesiastico - luterano l'uno, anglicano l'altro - e un'educazione austera, a parte una qualche passione eccentrica per le scarpe. Che pure non le ha risparmiato il velenoso nomignolo di 'Maybot', contrazione tra May e robot, affibbiatole per la scarsa empatia dei suoi interventi pubblici e una certa inclinazione a ripetere meccanicamente lo stesso discorso. Nata a Eastbourne, 62 anni compiuti, Theresa in gioventù studia geografia a Oxford e s'avvicina presto alla militanza Tory all'alba della rivoluzione thatcheriana. E' là che conosce il marito Philip, presentatole da una compagna di studi destinata a diventare famosa e a morire tragicamente, Benazir Bhutto, futura leader del Pakistan. Le nozze arrivano di lì a poco, i figli no: "Semplicemente, non è successo", disse tempo fa al riguardo. Dopo la laurea, e prima di buttarsi in politica, lavora alla Bank of England. Poi è tutta una scalata, senza balzi, ma costante. Nei sei anni (un record) al timone dell'Home Office, il ministero dell'Interno britannico, sfodera un garbato pugno d'acciaio e toni inflessibili sull'immigrazione e contro il radicalismo islamico.
A cambiare per sempre la sua carriera politica è però il ciclone Brexit. Sostenitrice muta del fronte Remain nel 2016, in realtà legata al tradizionalismo Tory e a un euroscetticismo moderato, May era parsa una figura adatta a cercare di ricomporre le fratture fra anti-Ue e pro-Ue dopo il referendum e l'uscita di scena di Cameron. Ma si è rivelata ondivaga, nel giudizio di chi per mesi l'ha criticata. Dopo un'iniziale scelta di campo per una hard Brexit, ha provato a ripiegare sulla linea di un compromesso con Bruxelles per portare a casa un divorzio concordato. E questo cambio di direzione - accompagnato da non pochi passi falsi, a cominciare dalla decisione di andare a elezioni anticipate nel giugno 2017 per ritrovarsi con meno deputati conservatori eletti ai Comuni e un'opposizione laburista rafforzata a sorpresa sotto la guida di Jeremy Corbyn - ha contribuito inevitabilmente a indebolirla. Senza peraltro indurla alla resa: forte di una capacità di resistenza e di galleggiamento rivendicata come una medaglia, in nome di una certa idea di "interesse nazionale" e "senso del dovere". La stessa che oggi, dopo tre sonore bocciature in Parlamento e con la quarta all'orizzonte, l'ha spinta a farsi da parte. Tra le lacrime, tanto per scrollarsi di dosso, almeno alla fine, l'accostamento a un robot.