(di Francesco De Filippo)
Se ne è andato alla chiusura di un
ciclo storico, quello del 'secolo breve' protrattosi oltre la
boa del Duemila. Se ne è andato dopo aver visto i Presidenti
Sergio Mattarella e Borut Pahor tenersi mano nella mano sul
Carso triestino; dopo essersi assicurato che il Narodni dom - lì
dove in pratica era cominciata la sua storia personale -
bruciato dai fascisti nel 1920 come egli stesso testimoniò,
fosse restituito alla comunità slovena. Vicino ai 109 anni,
quasi placato, se ne è andato Boris Pahor.
L'indomito scrittore e intellettuale di lingua slovena, nato
a Trieste nel 1913, è considerato il più importante scrittore
sloveno con cittadinanza italiana. Avendo attraversato tutti gli
orrori del XX secolo, è stato una delle voci più significative
della tragedia della deportazione nei lager nazisti, come
raccontata in Necropoli; ma anche delle discriminazioni contro
la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista. Li
aveva attraversati, quegli orrori, non leggendoli ma subendoli,
fisicamente, come poi avrebbe riportato nella trentina di libri,
tradotti in decine di lingue, tra cui Qui è proibito parlare, Il
rogo nel porto, La villa sul lago.
Una vita incredibile: animato da uno spirito enorme e da un
fisico piccolo ma resiliente, Pahor ha visto cose che pochi
altri hanno visto: la disgregazione dell' Impero asburgico, la
Spagnola, Grande guerra, squadrismo e fascismo, Fronte di
Liberazione sloveno (cui aveva aderito). Aveva vissuto la
deportazione nei lager - passò per Dachau, Natzweiler,
Markirch, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen - per riemergere
alla vita, incredibilmente, dopo la guerra in Africa e il
sanatorio in Francia nel 1945. In lui bruciava la voglia di
raccontare questa montagna di esperienza che sembra non poter
essere contenuta in una sola esistenza. Lo ha fatto con i suoi
libri e con le centinaia di incontri con gli studenti, finché ha
potuto.
A 107 anni aveva sospirato per quel "compleanno diversissimo"
dovuto alla "relazione italo-slovena che si è creata". Sfinito,
fragile, coperto come in inverno nonostante il caldo, aveva
voluto incontrare i due presidenti, quasi a voler sancire che i
due Paesi avessero finalmente imboccato la strada della
pacificazione definitiva.
"Vorrei proprio poter vivere ancora", aveva detto, mostrando
quell'attaccamento alla vita con le unghie e con i denti che gli
aveva consentito di sopravvivere a ogni naufragio. Contro la
Jugoslavia che perseguitava gli slavi cattolici, contro l'Italia
che perseguitava gli sloveni, aveva dedicato "le onorificenze a
tutti i morti conosciuti nel campo di concentramento e alle
vittime del nazifascismo e della dittatura comunista" ricevendo
i titoli di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana e sloveno dell'Ordine per meriti eccezionali
dalle mani dei presidenti.
Oggi il Capo dello Stato italiano lo ha ricordato: "Voce
autorevole della minoranza slovena in Italia, limpida e alta
espressione letteraria del Novecento, testimone e vittima degli
orrori causati dalle guerre, dal nazionalismo esasperato e dalle
ideologie totalitarie, interprete della complessità della storia
del suo territorio, lascia un grande vuoto nella cultura
europea". La senatrice Tatiana Rojc (Pd), triestina slovena,
autrice di un libro con Pahor, lo ha definito "un Ulisse
moderno" nel contesto "delle grandi testimonianze del '900". Per
il governatore del Friuli Venezia Giulia, Fedriga, è colui che
"ha trasformato la propria drammatica esperienza personale in
testimonianza utile a comprendere le tragedie del Novecento".
"Ti battevi perché non venisse omesso nulla dei crimini che
il Fascismo ha commesso contro il tuo Paese. Non volevi morire
perché sapevi quanto è debole e pigra la memoria degli uomini, e
volevi continuare a fare la tua testimonianza", commenta
Elisabetta Sgarbi. La "sua" Nave di Teseo pubblicherà tra pochi
giorni una autobiografia ampliata con capitolo inedito, "Figlio
di nessuno".
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