Gli scontri verificatisi a Trieste
tra giovani kosovari sono lo "strascico di faide private tra
clan famigliari contrapposti, regolate da rapporti di stampo
mafioso, in molti casi in lotta per assicurarsi la leadership
nel monopolio dell'edilizia cittadina. Quando parliamo di
integrazione e di (micro)delinquenza bisogna dunque guardare più
a fondo dei singoli episodi di cronaca locale. Dobbiamo invece
fare i conti con un problema strutturale più ampio, che ci
mostra più chiaramente le cause delle frizioni che affiorano
sulla superficie della vita triestina". A spiegarlo è Riccardo
Roschetti insegnante, impegnato nella mappatura dell'
immigrazione minorile kosovara in Fvg e autore di un libro (La
masnada delle aquile; Infinito) sui giovani kosovari a Trieste.
Per Roschetti, il Kosovo è "il buco nero dell'ex-Jugoslavia,
nazione fragile" da cui chi può scappa senza guardarsi
indietro", un paese animato da "un disperato idealismo": Ma "non
sono i kosovari a essere antisociali incapaci di trovare un
equilibrio e una serenità con le regole di un paese altro. La
responsabilità va semmai cercata nelle sclerotizzate dinamiche
di potere familistico perpetuate qui come e peggio che in
Kosovo".
L'esperto parla di "giovani in una prigione autoreferenziale
in cui soffocano" per i quali occorrerebbe "creare percorsi
legali per eliminare il traffico umano" e "offrire la
possibilità (come fatto con ragazzi in fuga dall'Ucraina) di
concludere i percorsi scolastici lasciati in sospeso, per
aumentare le opportunità di affermazione", investire "sulla
alfabetizzazione, per agevolare l'inserimento fornendo strumenti
idonei, linguistici in primis, per orientarsi e non riconoscersi
più come estranei".
Quasi tutti i giovani kosovari "si stabiliscono a Trieste
dalla minore età e a 18 anni si inseriscono nelle reti
famigliari e amicali di altri connazionali, passati prima di
loro per lo stesso assistenzialismo. Per alterare le inevitabili
ricadute nei clan locali bisogna prima di tutto investire sugli
interventi qualitativi nelle comunità di accoglienza", dove
spesso "mancanza di risorse economiche e assenza di un'adeguata
preparazione del personale", fa del sistema d'accoglienza un
'sorvegliare e punire' anziché una organizzazione che si occupa
dei loro problemi socio-culturali che affrontano nel processo
d'integrazione". Va considerato poi che, ad esempio, "tutti gli
immigrati kosovari di nuova generazione a Trieste sono
adolescenti e maschi, "auto-ghettizzati in appartamenti
sovraffollati, costretti senza molta alternativa a ritmi di
lavoro usuranti nelle ditte di edilizia come moderni schiavi"
slegati "dal tessuto sociale italiano, poco o per niente
alfabetizzati, affamati di sogni di gloria da realizzare nella
maniera più rapida possibile, aggrappati al cordone ombelicale
del lacerato paese natale e ai debiti contratti per partire".
Giovani che amano "esibire con esasperato nazionalismo il loro
sentirsi sqhiptare (albanesi)" con "una feroce ansia di
affermazione che diventa rabbia contro le istituzioni e chiunque
si interponga tra la loro smania di successo e il feroce
attaccamento a un'identità albanese a lungo negata dal
dominatore serbo". Non è, ovviamente, "violenza connaturata" ma
"strategie culturali in cui la violenza assume funzione
risolutrice". Così, il codice giuridico e sociale medievale del
Kanun, la "vendetta di sangue", non vuole "alimentare i
conflitti ma sedarli", ma è "un diktat identitario con cui è
difficile scendere a patti".
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