(di Francesco De Filippo)
MAURO CORSO (a cura di) 'SALVATE
DAI PESCI' (Castelvecchi, pp. 114 - 15,00 euro) - Spesso le
madri detenute non riescono a raccontare ai figli la ragione
della loro assenza, anche quando questa si prolunga per anni.
Non riescono a parlare del carcere preferendo addirittura
trasformare la realtà in modo ambiguo e non salutare per il
rapporto con i figli. Non venali bugie ma omissioni che
provocano enormi problemi relazionali e familiari. Per superare
questo ostacolo Ri-scatti ODV dall'ottobre 2022 per 5 mesi
realizzò un laboratorio nella sezione femminile del carcere di
Rebibbia, condotto dall'attrice Michela Cesaretta Salvi.
Da quel laboratorio è nato anche un libro, "Salvate dai
pesci", delicato, molto rispettoso, in cui interventi episodici
delle detenute sono alternati a brevi spiegazioni delle autrici,
e il cui titolo è dovuto alla detenuta Floriselda che raccontava
una favola del suo paese, il Guatemala. Dietro le sbarre si
soffre la carcerite, la detenzione cioè è malattia. Una
sofferenza che per tante è quasi una sorpresa e che può portare
all'autolesionismo: a Fadila, bosniaca, i figli che non vede dal
2008 le mancavano in modo tanto forte che ammette: "Mangiavo
l'imbottitura dei materassi". Neanche Meiza vede i figli, da
quasi dieci anni.
Strana vita quella del carcere: nessuna detenuta parla dei
reati che ha commesso e le colpe sfumano. Non è fuga dalle
responsabilità: ciò che è avvenuto, che è stato fatto rientra in
una gamma di azioni quasi inevitabili, eventi inderogabili che
fanno parte di un percorso di vita. Molte non lavorano né si
dedicano ad alcuna attività, vivono in apnea non facendo niente
per tutto il giorno.
E non ci sono parole in cella: "Sul quadrante dell'orologio
delle donne in carcere il tempo è scandito da frasi sfuggite di
gola", annotano le operatrici che hanno scritto il libro.
Locuzioni smozzicate, incomprensibili che si prestano a
incomprensioni e a più profondi silenzi. In questo senso il
laboratorio ha una funzione liberatoria: in quella sede riesce a
esprimersi anche chi non parla. Il laboratorio ha un'etica: le
detenute non si svelano, parla chi e quando vuole, l'accesso è
libero come l'uscita. Regole sacre per un laboratorio appunto,
ma che applicate a un libro lo trasformano in atti di convegno,
in manuale. Aiuta il cortometraggio che è stato girato sul
laboratorio (si accede con un qr), altrimenti le sole pagine
sono una carrellata di senza volti e quella stessa etica diventa
una nuova prigione, ma per il lettore, che è privato di
riferimenti: non vede i volti, non entra mai in una storia,
intercetta passivamente messaggi da un luogo ignoto e deve
costruirsi un mondo da poche frasi, decontestualizzate, di donne
che compaiono una volta, due, poi scompaiono. Eppure Floriselda
scrive una poesia molto bella durante il laboratorio, Maida
sostiene che "il carcere è un piccolo mondo in miniatura, tanto
ristretto materialmente, fisicamente, tanto emotivamente,
sentimentalmente ampliato". Patience, nigeriana, sappiamo che
canta molto bene; Gioia dice che è difficilissimo smettere di
pensare in carcere.
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