(di Paolo Petroni)
Davide Enia entra in scena a seguito
di un incidente con le stampelle e un tutore alla caviglia e
sembra fatto apposta per uno spettacolo intitolato a 'Roberto
Baggio', anche se non si tratta del ginocchio, che il giocatore
si ruppe due volte, sempre dato per finito e tornato invece ogni
volta in campo a far goal o sbagliarli, come il rigore del 1984
per cui l'Italia perse i mondiali. Il monologo racconto, nato
per il festival Stadium der Traume a Monaco di Baviera, ha
aperto la stagione del restaurato Nuovo Teatro Ateneo della
Sapienza a Roma, dove all'inizio Guido Di Palma ha ricordato
Glauco Mauri, che all'Ateneo, con Roberto Sturno, aveva la
scorsa stagione aperto un laboratorio cui aveva lavorato con la
solita inflessibile professionalità, anche dopo la scomparsa del
compagno, sino a primavera.
Il vero protagonista, però, del lavoro di Enia, non è il
calciatore, ma il medico anestesista Roberto Baggio, che ha
lavorato una vita negli ospedali da campo in zone di guerra
dall'Afghanistan all'Iraq e ne porta la testimonianza allo
scrittore-attore in tutto il suo orrore. Questa omonimia però
finirà per essergli utile, dargli paradossalmente coi malati più
autorevolezza, essere una sorta di passepartout, come il
calciatore lo era per Gino Strada, che unico riusciva a passare
tutti blocchi stradali militari mostrando una foto di sé
abbracciato proprio con il campione, un idolo internazionale.
Il testo di Enia è scritto con la sua solita maestria (e
leggete i suoi libri se lo amate), con leggerezza e nessuna
superficialità, raccontando tutto, meraviglie e orrori, calcio e
guerra, usando le prodezze, le azioni, i goal, gli errori del
calciatore, con il suo buddismo e apertura alla presa di
coscienza profonda, come metafore per l'impegno, gli ostacoli,
le decisioni dei medici al fronte, quando viene voglia di
lasciar perdere tutto, quando arriva la crisi che, prima o poi,
prende chiunque sia costretto a confrontarsi giornalmente con
cose terribili.
Il Baggio anestesista racconta di angoscia, pianto,
disperazione del proprio lavoro. Allora ecco bambini
orrendamente amputati, bambini uccisi uno dopo l'altro con un
colpo in fronte, bambini riempiti di cocaina e mandati a far
stragi nei loro villaggi, bambine stuprate orrendamente e
mutilate a pezzi se resistono, finché non cedono. Un lavoro
comunque di cui si vive la necessità, perché offre l'unico punto
di riferimento in quelle zone e situazioni, perché si ricovera
chiunque e un talebano e un pasdaran possono ritrovarsi in due
letti accanto dopo essersi sparati e finire per parlarsi e
giocare a scacchi assieme. Il fatto è che "la guerra rende
possibile e consueto l'inimmaginabile" e succede di tutto, dalla
madre che ripara col proprio corpo il figlioletto e lei viene
passata da parte a parte da un proiettile che non le fa
praticamente niente e arriva dritto al cuore del bambino o la
storia di Shirin, salvata dalle ustioni di una mina antiuomo con
cure lunghe e dolorosissime, che sopporta senza un lamento,
andando a incoraggiare altri ragazzini nell'ospedale, e un
giorno, rimandata a casa, tornerà dopo un mese cadavere, colpita
nel giardino di casa da un cosiddetto proiettile vagante.
Enia racconta, parla anche di sé e di proprie crisi di ansia,
di una Iliade interiore e della scrittura come allenamento per
non soccombere, e assieme riferisce le parole del dottor Baggio,
in modo piano umanamente partecipato profondamente, senza
eccessi interpretativi o retorica alcuna, così che l'effetto è
fortissimo, lo spettatore trattiene il fiato, è coinvolto dal
racconto, che pure è al fondo più altamente narrativo,
affabulatorio, che costruito teatralmente. E allora la fine è
quasi liberatoria e gli applausi sono calorosi e lunghi.
Il prossimo appuntamento a Roma lo annuncia allora dal 20
maggio al primo giugno al Teatro India col nuovo lavoro
'Autoritratto', che parte a dicembre in Romagna poi va al
Piccolo di Milano dal 25 marzo e a Torino al Carignano dal 3
giugno, per citare le tappe più importanti.
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