L'allarme corrosione lanciato
dall'ingegnere Riccardo Morandi già nel 1981 e segnalato ad
autostrade. La scarsa adeguatezza dei controlli sul ponte, anche
da parte dei funzionari ministeriali, e la necessità di adottare
provvedimenti urgenti come la "limitazione o la chiusura al
traffico". Si sapeva da decenni della corrosione ma i controlli
non erano semplici. È, in sintesi, quanto ha detto Ivo Vanzi,
componente della commissione ministeriale creata poco dopo la
strage del 14 agosto 2018, docente universitario e membro del
Consiglio superiore dei lavori pubblici, nel corso del processo
per il crollo del ponte Morandi (14 agosto 2018, 43 vittime).
Una lunga testimonianza sul lavoro svolto dai consulenti
ministeriali che furono chiamati per accertare quanto successo e
le possibili cause della tragedia. "Morandi - spiega Vanzi - era
in apprensione per la corrosione che minava la tenuta
complessiva dell'opera, generata dalla vicinanza al mare e
dall'umidità". L'opera era "una struttura ardita per l'epoca" ma
il tipo di struttura (cioè con il calcestruzzo precompresso)
venne poi abbandonata perché non veniva protetta dalla
corrosione. Però le ispezioni distruttive sono "analisi molto
delicate - continua Vanzi - perché bucare è facile ma
ripristinare meno. È un processo molto delicato che rischia di
non fare bene all'opera". Le "prove riflettometriche", cioè
l'esame dei cavi dall'esterno con una sorta di radiografia, "era
ciò che si poteva fare". "C'erano però incongruenze tra le
valutazioni, il voto numerico dato al difetto e al pericolo che
poteva rappresentare, e il difetto stesso. C'era
sottovalutazione dei difetti". Vanzi ha anche affrontato il
progetto del retrofitting, il rinforzo delle pile 9 e 10. "In
alcuni allegati al progetto - spiega il docente - emergevano
coefficienti di sicurezza inferiori a 1 per alcune parti del
viadotto. Quel dato dovrebbe indurre a interventi immediati
sulle parti non sicure, come un rinforzo, ulteriori indagini o
la limitazione della struttura".
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