L’IA del futuro ci aiuterà a pensare
Dino Pedreschi, professore ordinario di Informatica presso l’Università di Pisa, spiega perché l’intelligenza artificiale non dovrà ragionare al nostro posto, ma aiutarci a farlo meglio
Di Alessio Jacona*
L’intelligenza artificiale del futuro, che poi è quella che stiamo costruendo in Italia e in Europa, non dovrà “pensare” al posto nostro, ma ci aiuterà a pensare meglio, e a sbagliare di meno. Per costruirla, serve cambiare l’approccio alle nuove tecnologie, specie a quelle basate su IA, che finora è spesso consistito nell’adottare una soluzione semplicemente perché esisteva.
È la filosofia del «C’è questo strumento, allora usatelo», come spiega Dino Pedreschi, professore ordinario di Informatica presso l’Università di Pisa, secondo il quale il problema è che finora si è lavorato senza considerare come funziona la mente umana: «Abbiamo sviluppato strumenti che possono aiutare le nostri decisioni, senza occuparci a sufficienza degli aspetti psicologici», svela.
Dino Pedreschi è uno scienziato pioniere nel mobility data mining, nel social network mining e nel privacy-preserving data mining. Dirige insieme a Fosca Giannotti il Pisa KDD Lab - Knowledge Discovery and Data Mining Laboratory. «Il nostro ragionare lavora con due sistemi - continua - c’è il sistema 1 che è rapido, intuitivo, istintivo, ovvero quello che ci fa prendere decisioni di pancia. Poi c’è il sistema 2 che è razionale, richiede molta energia, è più lento e che utilizziamo solo quando prendiamo cantonate con il sistema 1. Ecco, nella storia dello sviluppo di sistemi IA che supportano le decisioni - aggiunge- abbiamo sviluppato sistemi che dialogano solo con il sistema 2». Peccato solo che sia il sistema 1 a fare i danni peggiori.
Secondo Pedreschi, la soluzione è sviluppare macchine che ci aiutino a pensare, che sappiano interfacciarsi con il nostro sistema 1, impedendoci di compiere errori in buona fede: «Macchine che sappiano capire quali sono i momenti, le modalità e i meccanismi per cui rischiamo maggiormente di sbagliare, e ci mettano in guardia al momento giusto».
Una sfida non banale, visto che significa anche creare un’IA che non solo deve comprendere l’essere umano, saperne leggere le emozioni e i sentimenti, impararne i meccanismi di ragionamento, diversi da persona a persona, ma che deve anche essere comprensibile, cioè in grado di spiegare le proprie scelte, oltre che di capire le nostre domande.
E poi non deve essere “egoista”: oggi le IA che usiamo di più, come ad esempio quelle nei navigatori intelligenti, «prendono decisioni che sembrano giuste a livello individuale, ma non lo sono a livello sociale», chiarisce Dino Pedreschi. Ce ne accorgiamo per esempio quando ci ritroviamo in fila nel traffico tutti sullo stesso “percorso più breve” indicato dal navigatore, che consiglia un individuo senza tenere troppo in conto gli altri con le stesse necessità. Peraltro, generando un effetto molto simile a quello della famigerata “partenza intelligente”, quando ci si ritrova tutti insieme in fila all’alba in autostrada, in partenza per le vacanze.
Insomma, servono «macchine che ci aiutino a pensare meglio e, contemporaneamente, a essere animale collettivo», ossia capace di fare sia il nostro interesse, sia quello degli altri.
Senza tuttavia dimenticare mai che siamo noi esseri umani al comando, che siamo noi a dover pensare, comprendere, decidere, e scegliere: «Io non credo all’idea del cyborg, dell’umano che diventa migliore perché integra la tecnologia - riflette Dino Pedreschi - credo nell’educazione, nel fatto che le persone possano migliorare solo grazie alla formazione e alla scuola, nel momento in cui sono esposte a esperienze che non avevano ancora fatto e a idee che non conoscevano».
Insomma, l’auspicio è passare da «tecnologie che ci coccolano e ci viziano» puntando a sostituirci, a strumenti che «ci aiutino ad educarci, e che per questo devono essere umano-centrici, sotto il nostro controllo e in evoluzione continua, perché la società si evolve rapidamente». Se creeremo nuovi strumenti di IA partendo da questa visione, conclude Pedreschi, «allora non saremo più cyborg di uno scolaretto che va a lezione, non più di quanto lo fossimo quando usavamo un televisore o una radio per imparare e acquisire informazioni».
*Giornalista, esperto di innovazione e curatore dell’Osservatorio Intelligenza Artificiale
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