La commemorazione ufficiale quest'anno, a Caltanissetta, è durata poco. Il tempo di una pausa del processo che aggiungerà un altro tassello alla storia della strage di Capaci. I magistrati hanno scelto di ricordare il collega Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro portando alla sbarra chi ancora per l'attentato di 22 anni fa era rimasto impunito.
La decisione di fissare nel giorno dell'anniversario della strage l'inizio dell'ultimo dibattimento sull'assassinio di Falcone non è stata certo casuale. E mentre a Palermo l'antimafia si è divisa tra sostenitori e detrattori dell'inchiesta sulla trattativa tra i clan e pezzi delle istituzioni, a Caltanissetta cinque boss sono comparsi davanti alla corte d'assise - la stessa che celebra il processo per l'eccidio di via D'Amelio - per rispondere dell'attentato con cui Cosa nostra dichiarò guerra allo Stato.
L'ultimo capitolo della storia processuale della strage riguarda la fase preparatoria. E inchioda, oltre al boss Salvo Madonia, finora mai finito nel novero dei mandanti, i "picciotti" della cosca di Brancaccio - Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello - gli uomini dei Graviano, cioè, che curarono il recupero in mare e la preparazione dell'esplosivo. Anche quest'inchiesta dei pm nisseni, come quella sull'attentato al giudice Borsellino, che ha riscritto totalmente la verità sul delitto smontando il clamoroso depistaggio che portò alla condanna all'ergastolo di 8 innocenti, nasce dalle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza.
E fa luce su tanti punti finora ritenuti oscuri, spazzando via i sospetti sulla partecipazione, almeno nella fase esecutiva, di soggetti esterni a Cosa nostra. Lo dicono i collaboratori di giustizia - Spatuzza, ma anche Fabio Tranchina - lo accertano anni di indagini tecniche che smontano la tesi della presenza di entità terze. "La torcia trovata a 63 metri dal cratere dell'esplosione - ha spiegato l'aggiunto Lia Sava che ha coordinato l'inchiesta - porta le impronte di Salvatore Biondo, uomo d'onore già condannato per la strage". Non c'è alcuna prova dunque che un personaggio estraneo a Cosa nostra il 23 maggio di 22 anni fa si trovasse sul luogo dell'esplosione. Come nulla conferma la presenza, adombrata dal pentito Gioacchino La Barbera, di un ignoto mister X nella abitazione del mafioso Antonino Troia poco prima delle operazioni di travaso dell'esplosivo.
E paradossalmente la tesi della mano esterna viene smentita dallo stesso Totò Riina che, intercettato mentre discute in carcere con il codetenuto Alberto Lorusso, si assume tutta la responsabilità della strage. Il padrino corleonese parla espressamente di esplosivo recuperato "a mare", confermando le dichiarazioni dei pentiti, e si vanta dell'enorme quantità di tritolo impiegato nell'attentato smentendo la presenza di cariche aggiuntive a quelle usate dalla mafia. Le confidenze del boss entreranno agli atti del processo.
Insomma "la verità sulla fase preparatoria dell'eccidio si conosce", ha detto Lari non negando comunque l'esistenza di indagini parallele. Come quella su Giovanni Aiello, noto alle cronache come "faccia da mostro" per i segni di un'esplosione di un'arma che porta in viso. Ex poliziotto, vicino ai Servizi viene descritto da un confidente poi ucciso come un "killer di Stato". "Continuiamo a lavorare", ha spiegato il procuratore. Ma dal processo in corso una risposta alla domanda di verità invocata dalle tante parti civili costituite arriverà.
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