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La storia vista dall'hotel Colony di Gerusalemme

La storia vista dall'hotel Colony di Gerusalemme

Le guerre e i grandi inviati nel racconto di Alberto Stabile

PALERMO, 06 ottobre 2024, 12:31

Redazione ANSA

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di Francesco Terracina ALBERTO STABILE, "IL GIARDINO E LA CENERE. ISRAELE E PALESTINA NEL RACCONTO DI UN ALBERGO LEGGENDARIO", (SELLERIO PP. 233, 15 EURO) L'albergo leggendario di Gerusalemme, l'American Colony, rifugio della tribù di giornalisti (ne ospitava fino a 300) arrivati dai quattro angoli del pianeta, è il luogo che Alberto Stabile, inviato di Repubblica sin dai tempi della prima intifada, sceglie come punto d'osservazione per raccontare una storia di sangue e distruzione a partire dall'88 e fino all'ultimo conflitto scatenato dalla strage compiuta da Hamas lo scorso 7 ottobre.
    Per Gerusalemme il Colony è un po' come lo Schatzalp di Davos, che fa da sfondo alla "Montagna incantata" di Thomas Mann. Situato in una rientranza della Nablus Road, nel quartiere Sheikh Jarrah, al Colony s'aggirava il boliviano Juan Carlos Gumicio, morto a soli 52 anni, uno dei giornalisti (assieme a Robert Fisk e Odd Karsten) a scoprire nel settembre dell'82 il massacro di Sabra e Shatila che era stato fino a quel momento occultato. Lo fecero, come avrebbe raccontato Fisk, perché incuriositi da uno sciame di mosche, "eccitate dall'odore della morte". L'albergo è anche il luogo in cui Gumicio e Marie Colvin, la giornalista che sfidava i cecchini per portare a casa un briciolo di verità, coltivavano un rapporto poi sfociato nel matrimonio: "Ad esser felici insieme ci hanno provato. Ma non ha funzionato", scrive Stabile, anch'egli invaghito di una fotoreporter americana, Anastasia: "Molti amori sono sbocciati all'interno di scenari di guerra, dominati dalla tensione, dalla paura e dal desiderio di portare a casa la pelle", confessa l'autore.
    Il Colony era anche il luogo del libraio Munther, che in un angolo dell'hotel offriva testi imprescindibili sul Medio Oriente. E davanti al Colony stazionava il divo dei tassisti, Abu Shain, "fumatore incallito, capace di rivoltare come un calzino il motore della sua Mercedes". Un uomo che sfoggiava un inglese quasi incomprensibile, che non era l'unico difetto: praticava, suo malgrado, prezzi esosi ma arrivava a destinazione superando ogni ostacolo. Governato a bacchetta dalla moglie, a sera doveva mettere insieme almeno cento dollari, senza i quali sarebbe stato meglio che non rincasasse.
    "A poco a poco, i Jerusalem Boys and Girls si sono dispersi fra le varie capitali del mondo da cui erano partiti", scrive Stabile. Altri sono morti, come Gumicio e Marie Colvin, uccisa a 56 anni in un agguato dell'esercito siriano a Baba Amr, insieme al fotoreporter francese Rémi Ochlik. Come Patrice Claude, "il Richard Gere" dei grandi reporter francesi, sconfitto da una malattia.
    Una dozzina d'anni fa, tornato a Gerusalemme "dovetti constatare che una nuova generazione di giornalisti s'era fatta avanti per seguire il conflitto mediorientale. L'albergo dove anni prima mi ero sentito a casa mi accolse con l'affettuosa ospitalità di sempre. Ma alcuni degli alti sgabelli rimanevano adesso vuoti, o erano occupati da altri. In un angolo del cortile, adibito a parcheggio, dove un tempo Lawrence d'Arabia aveva giocato a pallone esibendosi come portiere, notai una piccola targa che ricordava la morte di Valentine Vester, la donna che, assieme al marito Horatio, aveva dato origine, forse senza volerlo, al mito dell'American Colony".
   

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