''Ho visto persone guarire da Ebola, e questo è stato il momento più bello''. E' un messaggio di speranza, a fronte del numero crescente di vittime che il virus continua a fare in Africa, quello che arriva da Silvia Meschi, virologa di 37 anni, tra i primi specialisti ad arrivare in Guinea con un obiettivo preciso: aiutare la popolazione e cercare di frenare l'epidemia.
Silvia, che lavora nei laboratori dell'Istituto nazionale per le malattia infettive 'L.Spallanzani' di Roma, manipolando i virus più pericolosi, è partita per la Guinea lo scorso marzo nell'ambito del progetto europeo laboratori mobili: ''Il progetto è nato nel 2012 e vi partecipano vari paesi Ue. Sono tre - spiega - le unità costruite ad oggi; ogni laboratorio, in pratica, è contenuto in 15 valigie, con tutta la strumentazione ed i reagenti necessari per effettuare le analisi. Quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità ci interpella, a fronte di emergenze epidemiche, siamo pronti a partire nell'arco di pochissimi giorni''.
Ed è proprio quello che è accaduto: da Roma Silvia è atterrata in Guinea, unica italiana nel team internazionale di 6 specialisti che per per primo ha raggiunto il villaggio di Gueckedou. Ed è qui che il laboratorio 'in valigia' è stato messo in piedi in tempi record. Il sistema di assistenza sul posto, spiega, funziona così: ''I malati, o sospetti tali, vengono portati in isolamento; i medici trasferiscono quindi a noi i campioni di sangue o fluidi per le analisi e, nel giro di 4 ore, i nostri test rivelano la positività o meno ad Ebola. Se positivo, il paziente è trasferito in isolamento e iniziano le cure''. Un'esperienza che Silvia definisce ''fortissima'': ''Una cosa è lavorare chiusi in laboratorio, altro è lavorare sul campo sapendo di essere utili, in quell'istante, a tante persone''. Il ''momento più bello - racconta - è aver visto pazienti guarire.
Da Ebola infatti, anche se l'epidemia tocca il 60-90% di mortalità, ci si può salvare. Si passava da giorni 'bui', con tanti morti, a giorni in cui eravamo in grado di dimettere pazienti guariti. Quella era la gioia più grande''. Tanti, però, gli ostacoli da affrontare: ''Un primo problema - sottolinea - è la diffidenza da parte della popolazione locale. Spesso la gente preferisce affidarsi alla medicina tradizionale, cerca di nascondere i casi di persone infettate o viene ai presidi solo quando sta già male ed è ormai troppo tardi. I malati vengono spesso curati in famiglia e questo, purtroppo, aumenta il diffondersi dell'epidemia''. Altro momento di contagio è poi rappresentato dai funerali: ''La tradizione prevede il lavaggio del cadavere e questo mette a rischio per l'inevitabile contatto con i fluidi corporei''. Aspetti anche culturali ''su cui è difficile agire. Per questo, i team sul posto - afferma - prevedono anche la presenza di figure come psicologi e sociologi''.
Silvia è rimasta in Guinea un mese e non esclude di tornarci. Alla domanda se, in qualche momento di questa ''straordinaria esperienza'' come lei stessa la definisce, abbia avuto paura, risponde così: ''Ero più intimorita dall'instabilità sociale o dal muovermi lungo le strade africane. Naturalmente sapevo di essere in qualche modo a rischio, ma ho fatto semplicemente ciò che fa parte del mio lavoro ed insieme a tanti altri colleghi.
Essere lì, utile nell'immediato a tante persone, è la soddisfazione più grande, che ripaga di tutto''.
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