''Il primo ricordo e' lo spavento di quando aprii la porta. C'erano due tedeschi in divisa. Non parlavano italiano, ma a gesti si fecero capire molto bene''. Con gli occhi azzurri e la coppola calata in testa, Lello Di Segni raccontò così, in un'intervista, la piu' grande deportazione italiana.
Unico sopravvissuto che ancora viveva nella capitale, Di Segni quel 16 ottobre del 1943 in via Portico d'Ottavia vide la morte in faccia ad appena 17 anni. ''In casa ero con mia madre, mio padre, tre fratelli e mia nonna - ricorda -. Indietro siamo tornati solo io e mio padre. Ricordo che riuscii a prendere giusto qualche vestito''. Poi, due anni di concentramento da Auschwitz a Birkenau, Halle e Dachau. ''Mi sono salvato solo perche' ho lavorato tanto - dice abbassando un po' lo sguardo -. Facevo tutto quello che mi dicevano i tedeschi, anche se non volevo. Ma avevo troppa paura che mi massacrassero di botte. Era l'unico modo per andare avanti''. Tra i ricordi dell'orrore dei campi, ''una mattina mi svegliai scalzo. Mi avevano rubato le scarpe - racconta -. Andai a lavorare lo stesso con delle pezze intorcinate ai piedi ma non ce la facevo. Alla fine ho dovuto rubarle a un altro poveretto''. Finalmente, il 10 giugno del 1945, la liberazione.
''Quando arrivai a Roma, non sa la gioia di riabbracciare mio padre - prosegue -. In questi anni ho cercato di dimenticare, ma non ce l'ho fatta. Oggi ricordo con dolore e sacrificio, pero' so' libero adesso. E sono contento se una mostra come questa fa sapere alla gente quello che abbiamo passato e fa capire che sono cose che non vanno dimenticate''.
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