Occhi grandi nerissimi, un sorriso che lascia di sasso. Un al-amira verde scuro le avvolge il viso da adolescente, camicia nera, jeans scuri e scarpe da tennis. "Ora sto bene, voglio andare a Roma per proseguire gli studi", dice Hikma, 18 anni. La sua è una storia orribile, come quella di qualsiasi migrante che fugge dall'Africa per raggiungere l'Europa, passando dalla Libia. Hikma è seduta in un tavolino di un hotel, di fronte la spiaggia sabbiosa della Guitgia, strapiena di bagnanti, con il mare trasparente da dove arriva forte la musica degli animatori con le hit di stagione. Con Hikma c'è un'altra ragazza, si chiama Amina e ha 20 anni, un hijab azzurro le copre il capo, maglia rossa, pantaloni bianchi e scarpe da tennis blu. La zona esterna dell'hotel è coperta dal wi-fi, così le due ragazze possono parlare al telefono con familiari e amici. "Siamo scese dalla Open Arms quattro giorni fa, abbiamo sofferto tanto poi ci hanno fatte sbarcare e portate in un centro", nell'hotspot di contrada Imbriacola. Hikma parla inglese, Amina solo arabo. Entrambe arrivano dall'Etiopia. Facevano parte del gruppo dei 13 naufraghi fatti sbarcare per motivi di salute dalla nave dell'ong spagnola. Fanno una telefonata dietro l'altra; sul tavolo due borsette, una beige e l'altra rosso scuro, da dove si intravedono gli auricolari e qualche effetto personale. "Sono qui con mia sorella, ho degli zii in Francia, prima però vorrei andare a Roma", si confida Hikma. Dall'Etiopia attraversando il Sudan, Hikma è arrivata in Libia. Lì è cominciato il suo inferno. "Sono stata rinchiusa e torturata, come tutti quelli che sono in Libia, è un posto pericoloso: per un anno e 4 mesi sono stata rinchiusa in una prigione, per il restante tempo in un magazzino: mi davano calci, pugni, è stato terribile", racconta.