Una delle più grandi tragedie dell'immigrazione, 368 morti e un numero di dispersi mai accertato, si è compiuta in meno di un minuto. Alle 5 del mattino del 3 ottobre il peschereccio lungo una ventina di metri, stracarico di eritrei infilati anche nella sala macchine, si ferma a meno di mezzo miglio dalle coste di Cala Croce, una delle insenature più belle di Lampedusa. Era partito 2 giorni prima da Misurata, in Libia, e la traversata, tutto sommato, era andata bene.
Tra l'altro, quella mattina il peschereccio non era solo nelle acque intorno a Lampedusa: già altri due barconi con oltre 460 persone erano stati soccorsi e portati a riva. Ma è proprio con la costa dell'isola già visibile dal mare che accade la tragedia. I motori del peschereccio si fermano e a qualcuno di quelli che erano alla guida dell'imbarcazione decide di dar fuoco a delle coperte: le fiamme, pensano, serviranno a farci vedere da chi è a terra e dalle altre imbarcazioni. "Ci fu un guasto e il tizio che era al comando diede fuoco ad un panno per cercare di segnalare l'imbarcazione - ha raccontato un anno dopo la tragedia Eskindr, eritrei sopravvissuto al naufragio che è andato in Olanda, dove ha fatto il meccanico di biciclette mentre frequentava la scuola superiore - ma il fuoco arrivo' alla benzina che era li' vicino, e da quel momento e' iniziato il dramma".
Le fiamme si propagano subito sul ponte, dove c'erano almeno 300 persone. Molte di loro, proprio perché pressate una sull'altra, non vedono neanche l'origine dell'incendio ma solo un gran fumo. Mentre tutti quelli che si trovano nella stiva o nella sala macchine, almeno altri 250, non solo non vedono niente ma neanche si accorgono di nulla. E' un attimo. I migranti presi dal panico cominciano a gettarsi in acqua ma, sopratutto, si spostano tutti insieme dal lato opposto della barca a quello dove ci sono le fiamme. Il barcone si piega su un lato fino a quando l'acqua non comincia ad entrare. E' il punto di non ritorno. In pochi istanti il peschereccio affonda e tocca il fondale, 45 metri più in basso. Per quelli che sono nella stiva non c'è neanche possibilità di muoversi: i sub li recupereranno giorni dopo ancora uno sull'altro. In 155, tra cui sei donne e due bambini, vengono invece salvati dalle barche che si trovavano in zona e che vengono allertate appena scatta l'allarme. Domenico Colapinto, uno dei pescatori intervenuti ne salva a decine ma non si è mai perdonato tutti gli altri che gli sfuggirono dalle mani, perché unti di nafta.
"Mi sono salvato aggrappandomi ai corpi senza vita dei miei compagni di viaggio che galleggiavano accanto a me" ha raccontato sempre Eskindr. I morti accertati sono 368, tantissime donne e anche dei 4 bambini: vigili del fuoco, guardia costiera, marina e guardia di finanza ci hanno messo più di 10 giorni per recuperarli tutti. "Li abbiamo legati per le caviglie ad una corda con lo stesso sistema utilizzato dai pescatori per sistemare gli ami alle reti da pesca - ha raccontato Giovanni Di Gaetano, coordinatore dei sommozzatori dei vigili del fuoco che con la sua squadra è sceso per primo - Un cadavere ogni cinque metri su una corda lunga sessanta". Tra i morti allineati sul molo Favarolo c'era anche Kebrat, una ragazza eritrea. E se non ci fosse stato Pietro Bartolo, il medico dell'isola e oggi europarlamentare, sarebbe ancora tra loro: "Era in mezzo ai cadaveri - ha raccontato l'allora medico dell'isola e oggi europarlamentare - se non mi fossi accorto di quel suo polso debolissimo sarebbe finita nei sacchi neri assieme agli altri". Per quei 368 morti, ad oggi, hanno pagato due persone: il somalo Mouhamud Elmi Muhdin, condannato a 30 e riconosciuto dai superstiti come uno degli organizzatori del viaggio, e il tunisino Khaled Bensalem, riconosciuto come scafista e condannato a 18 anni.
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