Una nuova questione di costituzionalità per il riconoscimento dei figli in una coppia omosessuale è stata sollevata per via incidentale dal tribunale di Lucca, che si è rifatto al "monito della Corte costituzionale" che nel gennaio 2021 aveva invitato il Parlamento a intervenire sul tema ritenendo "non più tollerabile il protrarsi dell'inerzia legislativa": con un'ordinanza è stato sospeso il giudizio e sono stati trasmessi gli atti alla Consulta perché si pronunci sulla legittimità degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004 e dell'articolo 250 del codice civile laddove "impediscono l'attribuzione al nato dello status di figlio anche alla madre intenzionale" e non solo a quella biologica.
La causa riguarda il riconoscimento della "bigenitorialità piena" da parte di due donne su un figlio nato con procreazione medicalmente assistita ma, scrive il tribunale, "risente di rilevanti lacune normative" ed in altri casi simili la questione "è stata risolta diversamente in giurisprudenza, registrandosi un orientamento maggioritario contrario ed un orientamento minoritario favorevole al riconoscimento della cosiddetta maternità intenzionale". Anche ricordando l'analoga questione di legittimità sollevata dal tribunale di Padova nel 2019, il collegio di Lucca dunque "reputa necessario rimettere nuovamente alla Corte la questione, volendo porre l'attenzione sul disomogeneo intervento dei sindaci come ufficiali di stato civile", i quali "hanno adottato, nel silenzio del legislatore, soluzioni distinte per casi speculari": "in alcuni casi hanno rifiutato l'iscrizione anagrafica anche della madre intenzionale nell'atto di nascita", "in altri hanno ritenuto legittima l'iscrizione".
Dunque "esiti non uniformi", commenta l'ordinanza, che "danno conto di un'evoluzione del tessuto sociale a cui, nella perdurante inerzia legislativa, non è stata data compiuta risposta". Senza un orientamento univoco, i giudici lucchesi chiedono quindi alla Consulta di vagliare "la compatibilità costituzionale" della norma laddove "attribuisce alla madre e al padre di riconoscere il figlio, nella misura in cui impediscono al nato con procreazione medicalmente assistita l'attribuzione dello status di figlio" cioè se la condizione di genitore possa valere anche per la "'madre intenzionale' che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla pratica di fecondazione". Oppure se, invece, le norme impongano la cancellazione dall'atto di nascita del riconoscimento compiuto dalla madre intenzionale.
Per il Ministero dell'Interno, costituito in giudizio, gli atti di stato civile "non hanno valore costitutivo di uno status, bensì unicamente di pubblicità e prova". E inoltre, rispetto alla coppia di donne di Lucca, "non risulta esservi alcun legame né biologico né genetico" tra la madre intenzionale e il minore mentre "la fecondazione eterologa è stata effettuata per libera scelta" dell'altra donna "al di fuori dei casi tassativi previsti dalla L.40/2004 integrata da sentenza della Corte Costituzionale 162/2014 che ha legittimato il ricorso a tale modalità di fecondazione anche in Italia nelle sole ipotesi di infertilità o sterilità assoluta o irreversibile o in presenza di gravi malattie trasmissibili". Il Comune lucchese coinvolto nella vicenda, ha sostenuto che lo Stato civile aveva iscritto il figlio con doppio cognome, di entrambe le genitrici, non considerando ciò in contrasto "con l'ordine pubblico e con le norme vigenti" ma anzi ritenendo tale agire "conforme al primario interesse del minore".
Il ricorso al tribunale è stato promosso dalla procura di Lucca per chiedere la 'rettificazione' dell'atto di nascita del minore, documento che aveva la peculiarità della omogenitorialità delle due donne dichiaranti, ma anche chiedendo che la questione fosse rimessa previamente alla Consulta sostenendo "la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità" sul tema del riconoscimento dei figli di coppie gay.
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