"Lavoriamo, progettiamo, investiamo denaro con una preoccupazione costante" per il futuro ed entriamo quotidianamente in allevamenti diventati "bunker", bardati e seguendo procedure di biosicurezza che per certi versi "fanno ricordare il periodo del Covid". Sono le preoccupazioni di un imprenditore della Bassa Piacentina, Andrea Minardi, che gestisce un'azienda suinicola del circuito della Dop del Prosciutto di Parma. La spada di Damocle si chiama "peste suina africana", Psa, e dopo il primo allevamento emiliano risultato focolaio del virus, con l'abbattimento di circa 750 maiali, tra gli allevatori serpeggiano solo preoccupazione e ansia.
Minardi, associato Coldiretti, ha un allevamento di 1500 scrofe a circolo chiuso, che si occupa cioè di tutta la fase di "produzione" di maiali destinati al macello per diventare prosciutti. Dalla fecondazione al parto, all'allevamento dei maialini per portarli al peso previsto da disciplinare. "È un momento di grandissima preoccupazione questo - dice all'ANSA - perché scontiamo una cattiva gestione della fauna selvatica. E non dall'ultimo anno, ma è dagli ultimi 10-15 che lamentiamo un numero spropositato di cinghiali" allo stato brado. Sono loro infatti il principale veicolo di proliferazione del virus e per evitare il contagio ai "cugini" domestici, i maiali degli allevamenti, sono in vigore rigide regole e procedure stabilite da Bruxelles fino alle Asl locali.
Ma "come il Covid ci insegna", sospira Minardi, nessuna barriera è impenetrabile al 100%. Anche l'allevamento del suo collega di Ponte Dell'Olio, che ha dovuto abbattere tutti i suoi capi per casi di Psa, seguiva tutte le regole ma il virus tra i maiali ci è entrato comunque.
"Noi ormai abbiamo degli allevamenti che sono come bunker - dice Minardi - camion e mezzi si fermano fuori, sono sottoposti a disinfezione come fossero in autolavaggio. Anche noi che lavoriamo abbiamo stanze distinte il fuori e il dentro, ci cambiamo, laviamo, indossiamo dispositivi usa e getta. Ogni allevamento è protetto da una rete alta un metro e 70 e interrata 30 centimetri". Consapevoli che tutto ciò potrebbe non bastare. I timori non sono soltanto per i propri maiali, ma anche per quelli dei vicini. Già perché se un allevamento diventa focolaio scattano automaticamente zone di sorveglianza e contenimento a 3 e 10 chilometri. Una riga tirata con un compasso. Per gli altri allevatori che sono dentro vuol dire - in sintesi - anche l'impossibilità di movimentare i propri maiali per periodi che possono arrivare anche a tre mesi o più.
"Questo - dice Minardi - per un'azienda come la nostra che produce maialini per la macellazione vuol dire che le scrofe continuano a partorire maialini che però resterebbero qui, non potremmo farli uscire e alla fine ci ritroveremmo a dover far abortire le scrofe, uccidere comunque i maiali". Scenari ai quali l'allevatore non vuole nemmeno pensare.
C'è poi un'altra questione: il prezzo al quale viene venduta la carne dei maiali vivi. A seconda della zona di attenzione per la Psa in cui si trova un allevamento - 1, 2 o 3 secondo le disposizioni europee - cambia il prezzo. "I macelli attualmente la pagano a prezzo pieno due euro e zero quattro. I maiali di zona 2 vanno a 1,10-1,15 al chilo". "Quello che chiediamo - spiega l'allevatore - è di continuare gli abbattimenti e il depopolamento per la fauna selvatica, con più forze possibili e poi sostegni dalle istituzioni, proprio perché se finiamo nelle zone 3, 2 o 1 subiamo forti deprezzamenti dal punto di vista commerciale".
Quello che si teme - oltre a una "pandemia dei maiali" - è un effetto domino dalle conseguenze catastrofiche per tutta la filiera. La quota stimata di prodotti Dop e Igp a base di carne suina dell'Emilia-Romagna è circa di 3,4 miliardi di euro di cui 3,2 miliardi solo per prosciutto di Parma e mortadella di Bologna, oltre alle carni lavorate.
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