E’ forse l’artista più noto dei nostri giorni, sicuramente lo street artist più popolare: di Banksy, le cui opere sono sparse sui muri di quasi ogni angolo del mondo, non si conosce l’identità – e questo mistero è forse uno degli ingredienti del suo successo – e soprattutto niente di quello che fa sembra essere particolarmente originale.
I graffiti e l’attività dei writers sono stati promossi ad arte molto prima di lui da artisti come Jean Michel Basquiat o Keith Haring, la provocazione è una caratteristica dell’arte quasi da sempre e certamente dai tempi delle avanguardie dei primi del ‘900 (si pensi a futuristi, surrealisti Dada ecc: ai gabinetti esposti come opere d’arte, al ferro da stiro con i chiodi sotto e quindi inutilizzabile, ai monumenti impacchettati da Christo e l’elenco potrebbe continuare), l’arte che nasce (e muore) in strada è uno degli assunti del ’68 francese (‘L’art c’est vous’) e del situazionismo di Guy Debord e perfino la ‘sparizione’, l’assenza, il non esserci lo abbiamo già visto in varie forme (da Salinger a Greta Garbo).
Dunque cose c’è in Banksy che ne ha decretato un successo così planetario e anche un riscontro in termini di valore (una sua opera è stata battuta all’asta per oltre un milione di euro)? Forse quello che prova a mettere in luce una mostra organizzata a Trieste in questi giorni e intitolata non per caso Banksy – The great communicator. Abbiamo provato a spiegarlo con l’aiuto di Alberto De Martini, esperto di comunicazione, saggista, ceo di Conic, nel podcast della serie L’impero dei segni.
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