Scompare un grande attore, una delle figure più carismatiche del cinema europeo, colui che per Ingmar Bergman è stato un alter ego inconfondibile, l'interprete che il regista definiva "il mio doppio, proprio come Marcello Mastroianni per Federico Fellini". Questo era Max Von Sydow, nato a Lund il 10 aprile 1929 e scomparso ieri alla vigilia dei 91 anni in quella Parigi che era diventata la sua seconda patria dalla fine degli anni '90 quando prese la cittadinanza francese dopo il secondo matrimonio con la produttrice Catherine Brelet. Alto, severo, capace di sorrisi ammalianti e di battute fulminanti, ma tutto sommato ligio a un'educazione frutto della sua formazione luterana voluta dalla madre, baronessa di Pomerania, ma cittadina svedese e maestra elementare. Suo padre invece, etnologo di fama e professore universitario, gli garantì un'infanzia agiata. Nel 1948 entrò con molti colleghi di fama come Ingrid Thulin al Royal Theater Dramatic di Stoccolma dopo aver calcato le assi del palcoscenico in compagnie amatoriali già al tempo della scuola. Dotato di volontà ferrea e di istintivo talento, capace di parlare fluentemente lo svedese, l'inglese e il tedesco, si fece notare da Bergman al teatro di Norrkoping (dove era impiegato) durante una tournée a Malmo all'inizio degli anni '50 e fu arruolato nella compagnia teatrale del regista, ormai una star in patria. Nello stesso 1951 debuttava al cinema con la regia di Alf Sjoberg in "La notte del piacere" (lo stesso anno del suo primo matrimonio con l'attrice Christina Olin), ma dovette aspettare sei anni prima di imporsi anche sul grande schermo. Fu una folgorazione mondiale quando nel 1957 vestì i panni del crociato che ingaggia una micidiale partita a scacchi con la morte ne "Il settimo sigillo", firmato da Bergman: non solo il Maestro aveva trovato il "suo" attore, ma von Sydow conosceva in un sol colpo la consacrazione in patria e all'estero. I due non si sarebbero più divisi (ben 14 film insieme) ma, diversamente da tanti colleghi di grande talento come Erland Josephsson, conobbe la miglior fortuna commerciale passando l'Oceano. Basti dire che, due volte candidato all'Oscar, è il solo attore svedese ad essere arrivato a questi vertici di popolarità. "Quando ho recitato nel 'Settimo sigillo' mi rendevo conto che le mie battute erano molto stilizzate e non potevano avere quella naturalezza che poi si sarebbe imposta nel cinema mondiale. Suonavano enfatiche ed era molto difficile renderle quotidiane. Molti pensano che un bravo attore deva identificarsi nel suo ruolo. Io non sono così: mi piace farmi prendere dal personaggio, ma considero che sia un privilegio fare in scena cose che non farei nella vita. Questo è il modello svedese dell'attore e del resto, col passare degli anni, mi hanno affidato sempre più spesso ruoli di vecchi nonni un po' male in arnese. In genere muoiono verso pagina 36 del copione. Ecco perché è bene mantenere una giusta distanza dai personaggi se si vuole continuare a vivere".
Fuori dalla Svezia, Max Von Sydow è diventato celebre per pellicole come "La più grande storia mai raccontata" (1965) , "I tre giorni del Condor" (1975), "L'Esorcista"(1973): "ogni volta che mi ricordano questo film - diceva - mi fanno un gran complimento dicendomi che li avevo fatti morire di paura.
Peccato che in quel film io avevo la parte del buono!". Con l'Italia - lingua che amava molto e che aveva imparato, proprio come il francese - ebbe un momento di intensa collaborazione dalla metà degli anni '70, chiamato da Francesco Rosi per "Cadaveri eccellenti" e poi da Valerio Zurlini per "Il deserto dei tartari". Ma la sua inconfondibile impronta si vede anche nei lavori con Alberto Lattuada, Mauro Bolognini, Pasquale Squitieri, Roberto Faenza, Giacomo Battiato, Dario Argento. Ma col passare degli anni diventava sempre più curioso di nuove avventure: perfino Blofeld in "Mai dire mai" con Sean Connery, anziano saggio in "Star Wars - Il risveglio della forza", Corvo a tre occhi per "Il trono di spade". In patria invece a lui si affidavano i migliori colleghi e allievi di Bergman: Ian Troell, Bille August, Thomas Vinterberg. E' stato diretto da mostri sacri come John Huston, Martin Scorsese, Woody Allen, Steven Spielberg, Wim Wenders ma diceva : "la mia vera casa è il teatro. Lì rischi ogni sera e sei solo col tuo pubblico. Al cinema sai che devi dare un altro te stesso".
Strano a dirsi, per lui che dopo l'infanzia religiosa si è sempre dichiarato agnostico, la sua presenza in scena comportava una sacralità quasi mistica. Appariva, ed era come se nel brusio dei dialoghi e degli accadimenti si facesse un silenzio irreale: emblematica la scena de "I tre giorni del Condor" in cui divide l'ascensore con il suo bersaglio (Robert Redford) e lascia al non detto tutta la dimensione di pericolo che il suo personaggio (un killer infallibile) porta con sé. In Svezia ha ricevuto le più alte onoreficienze artistiche, la Francia lo ha fatto Cavaliere della Legion d'onore, l'Oscar gli è sfuggito di mano ma è uno dei pochi attori candidati per un film non in lingua inglese. Lascia quattro figli (due per ciascun matrimonio) e un senso di vuoto in chiunque abbia amato il cinema.
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