Il 19 febbraio tutta Napoli e in particolare la gente di San Giorgio a Cremano dovrebbe alzarsi in piedi e brindare al compleanno del suo figlio più geniale e solitario del secondo Novecento: Massimo Troisi nasceva quel giorno e adesso avrebbe festeggiato i suoi 70 anni se un "cuore matto" non ce lo avesse portato via nella livida notte del 4 giugno 1994. Da poche ore aveva concluso le riprese del suo ultimo film (il "Postino") e stava a casa della sorella Annamaria al Lido di Ostia, stroncato all'età di 41 anni da un attacco cardiaco conseguente all'ennesimo episodio di febbre reumatica. Il paradosso è che quella notte non ha fissato soltanto la data di una tragedia umana, ma lo ha reso immortale nella sua eterna giovinezza.
Non possiamo pensare oggi a Massimo come a un quieto settantenne, perché la sua arte, la sua mimica, la sua umanità restano cristallizzate in uno slancio vitale che è solo dei bambini e dei poeti. Al festival di Berlino il conterraneo Mario Martone gli rende omaggio con un bellissimo documentario che ha voluto dedicare al Troisi regista, distaccandosi dai già noti ritratti a lui dedicati in questi anni. Un destino, il suo, segnato fin dall'infanzia: ultimo di sei figli, legatissimo al padre ferroviere, al centro di una famiglia accatastata nella casa di Via Cavalli di Bronzo in cui vivevano anche due nonni, due zii coi loro cinque nipoti, si ammalò al cuore fin da ragazzino, ma non amava parlarne e dei suoi problemi cardiaci erano al corrente solo in pochi. In teatro debuttò a 15 anni nel palco parrocchiale con Lello Arena e altri amici per rimpiazzare un attore che non si era presentato. Studiava da geometra, ma la passione per la poesia e la recitazione lo contagiò come un fulmine. Due anni dopo vestiva già la maschera di Pulcinella in una farsa di Antonio Petito a cui aveva impresso un svolta rivoluzionaria, sul filo della trasformazione della scena partenopea. "Già scrivevo poesie - avrebbe raccontato -, ma solo per me, poi ho cominciato a buttare giù canovacci e tra parentesi mettevo 'lazzi', quando si poteva lasciare andare la fantasia. A me divertiva proprio uscire coi 'lazzi', improvvisare, per poi tornare al copione.
Era il momento del teatro alternativo d'avanguardia e tutti volevano usare Pulcinella. Rivalutarlo. C'era Pulcinella-operaio, e cose del genere. A me questa figura pareva proprio stanca. Pensavo che bisognasse essere napoletano, ma senza maschera, mantenere la forza di Pulcinella: l'imbarazzo, la timidezza, il non sapere mai da che porta entrare e le sue frasi candide". Insieme agli amici del gruppo teatrale "RH-Negativo" (poi ribattezzato "I Saraceni") Lello Arena ed Enzo Decaro cominciò ad avere i primi veri successi nonostante la parentesi di un viaggio a Houston per sostituire la valvola mitrale. Il gruppo cambiò ancora nome ("La smorfia") ed è con questi compagni di viaggio che Massimo Troisi sbarcò in televisione nel 1977 con "No stop", intuizione anti-narrativa nel panorama degli show di quegli anni firmata da Bruno Voglino insieme a Giancarlo Magalli e al regista Enzo Trapani. Allo sciogliersi del sodalizio, nel 1981, l'eterno bambino era già una star col suo parlare strascicato, la calzamaglia nera, la follia quasi surrealista dell'improvvisazione. Scommise su di lui il produttore Mauro Berardi in un momento di stanca del cinema italiano: nel giro di un anno, con la complicità di Anna Pavignano - che divenne la sua compagna - e di Vincenzo Cerami, realizzò il suo primo film, "Ricomincio da tre".
Girato in 6 settimane con un budget di 400 milioni di lire, uscì nelle sale italiane il 12 marzo 1981 e conquistò immediatamente il pubblico (14 miliardi di lire al botteghino), tanto che una sala di un cinema di Porta Pia, a Roma, tenne in cartellone lo spettacolo per più di seicento giorni. Vennero anche i riconoscimenti: due David di Donatello, tre Nastri d'argento, due Globi d'oro della stampa estera. Tra televisione e cinema (apparve come attore in "No grazie, il caffè mi rende nervoso" e diresse il paradossale quanto profetico "Morto Troisi, viva Troisi") era una oramai star corteggiata e assunto nell'empireo partenopeo a fianco di Eduardo e Totò. Anche così si spiega il suo ritorno dietro la macchina da presa solo nel 1983 - quando tutti premevano perché cavalcasse il successo dell'esordio - con le timide scuse di "Scusate il ritardo".
Da allora avrebbe diretto appena 4 film in dieci anni, anche se "Non ci resta che piangere" è firmato insieme a Roberto Benigni e "Il postino" vede Michael Radford accreditato come regista. Nove le apparizioni da attore (inclusi i suoi film) tra cui meritano menzione soprattutto le tre sotto la guida di un inatteso "fratello maggiore" come Ettore Scola che costruì su di lui un vero gioiello come "Che ora è" (in coppia con Mastroianni) e "Il viaggio di Capitan Fracassa" per riportarlo ai fasti della commedia dell'arte. La scelta di interpretare "Il postino" (che aveva intensamente voluto dal romanzo del cileno Antonio Skarmeta), fu un gigantesco atto d'amore per l'arte e per quel personaggio: Troisi sapeva di stare ormai molto male e che doveva sottoporsi a un nuovo intervento al cuore. Rimandò quell'appuntamento oltre ogni limite per finire il film "con il suo cuore". Fu la fatica a stroncarlo, ma in questo modo trasportava se stesso in un'altra dimensione: la stessa che oggi ci permette di ricordarlo come un "fool" scespiriano, un folletto che resta sempre presente nell'immaginario popolare. Morto Troisi, viva Troisi, possiamo dire anche noi facendogli gli auguri per il suo compleanno.
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