(di Paolo Petroni) Pare l'Italia sia il paese con più traduzioni di ''Ulisse'' di James Joyce e a quelle esistenti se ne stanno aggiungendo tre nuove: la prima ad arrivare in libreria è quella a tre mani di LIVIO CRESCENZI, TONINA GIULIANI E MARTA VIAZZOLI (''ULISSE'' - MATTIOLI, PP.
982 - 20,00 EURO), cui segue subito, da FELTRINELLI, una firmata dal poeta ALESSANDRO CENI (PP.
1024 - 19,00 EURO), ambedue senza note e
attente alla leggibilità, al lettore, e a fine gennaio 1922, da
BOMPIANI, UNA RITRADUZIONE DI ENRICO TERRINONI in edizione
critica, con testo a fronte, ricchezza di note meticolose, saggi
introduttivi e altri apparati vari, che esce a dieci anni da
quella che firmò con Carlo Bigazzi per Newton Compton, e che fu,
a cinquant'anni dalla prima e storica di De Angelis per
Mondadori del 1960 (quasi 40 anni dopo l'uscita dell'originale
nel 1922) l'inizio di questo rinnovato interesse. Ogni nuova
traduzione resta comunque ogni volta un piccolo evento, anche
perché un'ulteriore sfida in quel work in progress che è il
tradurre un testo straniero, tanto più se della complessità e
difficoltà di questo romanzo. Lasciando da parte una particolare
edizione del 1995 firmata da Bona Flecchia, dopo la
Terrinoni-Bigazzi uscirono quelle di Gianni Celati nel 2013
(Einaudi) e di Mario Biondi l'anno scorso (La nave di Teseo).
Per quella nuova, appena uscita da Mattioli, ''quello nostro -
spiega il coordinatore dell'impresa Crescenzi - è stato un
approccio più 'formale' che contenutistico, più attento alla
tecnica del linguaggio e alla narrazione che a un discorso
simbolico o filosofico''. Per lui ''la prima traduzione di De
Angelis resta un capolavoro, anche ricordando che non aveva a
disposizione le consultazioni infinite di Internet'' e quelle di
Terrinoni hanno alle spalle i decenni di suoi studi joyciani,
linguistici e non'', mentre noi ''siamo solo traduttori che
hanno lavorato sempre pensando a una scrittura piana che
rispettasse il testo'' per privilegiare la leggibilità di pagine
spesso oscure, ''non cercando un risultato che potesse essere
punto di riferimento per studiosi accademici''.
Basti citare come risolvono anche solo le prime righe del
famoso e sempre assai discusso inizio dell'XI capitolo, rispetto
a scelte più sincopate o ritmiche e oscure precedenti: ''Bronzo
accanto a oro, udirono gli zoccoli ferrati, l'acciaio che
risuonava. Impertnint tnittnint. Schegge, estraendosi delle
schegge dall'unghia coriacea del pollice, schegge. Che
sporcacciona! E oro arrossì di più. Soffiò una rauca nota di
piffero''. Mentre Biondi aveva scritto:''Bronzo e oro fianco a
fianco sentirono gli zoccoli ferrati, dacciaiosonanti. /
Impertnt tntntn. / Schegge, piluccandosi schegge da rocciosa
unghia di pollice, / schegge. / Tremenda! E oro arrossì di più.
/ Una roca nota di piffero fiorì'', e uno scrittore come Celati
ha proposto: ''Bronzo con oro udito il suon di zoccoli,
d'acciaio rombanti. / Impertnènt tnènt tnènt. / Scaglie, via
sfregando scaglie dalla silicea unghia del pollice. Orrore! Oro
arrossì dal ribrezzo. Roca nota di piffero sonò''.
Un risultato che, da una parte, tiene conto di quanto
dell'amato Dickens Joyce abbia riverberato anche
linguisticamente nel suo ''meledetto romanzaccione'', come lo
definiva, e, dall'altra, ha ''battuto con passione pervicacia
strade linguistiche estreme'' popolari e letterarie, dal parlato
popolare dei pionieri del West sino alla scrittura colta del New
England.
''Ulisse'' è la storia minuziosa di una sola giornata, il 16
giugno 1904 (Joyce per essere corretto si servì di una copia
dell'Evening Telegraph di quel giorno), di Leopold Bloom e
Stephen Dedalus e dei loro incontri dublinesi, mentre il mito
dell'eroe dell'Odissea serve a Joyce ''per dare un senso e una
forma all'immensa futilità e anarchia della storia
contemporanea'', come ha scritto Eliot, e per descrivere il
perdersi nell'esistenza quotidiana dell'uomo d'oggi. Il romanzo
considerato uno dei più importanti del '900, ha uno stile che
varia su tutti i registri dal parodistico al dottrinale e usa
spesso il cosiddetto ''monologo interiore'', ovvero il riportare
un flusso di coscienza in cui i pensieri del protagonista
scorrono in assoluta libertà. Una lettura impegnativa, cosa di
cui lo stesso Joyce era consapevole, sottolineano i traduttori
odierni, ricordando che nel III capitolo scrive: ''Trovate
oscure le mie parole. L'oscurità è nelle nostre anime, non
credete?'' Certo che l'oscurità aprisse inaspettati ''portali di
scoperta''.
''Per comprendere la narrazione di Joyce sembra utile
ricorrere alla definizione canonica del termine 'complicazione'
nel campo dell'orologeria - spiega sempre Crescenzi - ossia
l'insieme di tutte quelle funzioni ulteriori presenti in un
orologio oltre alla mostrare l'ora''. E su come abbiano
affrontato tutto questo in tre, racconta: ''Ho iniziato portando
le due giovani allieve da un liutaio a osservare come si lavora
in bottega, come ci si sporca le mani, come si ruba il mestiere
a chi ne sa di più. Poi ho dato loro il testo della mia versione
e ognuna delle due ha portato le sue osservazioni quando ci
siamo messi al tavolino,, discutendo e anche accapigliandoci
frase dopo frase, pagina dopo pagina. In questo c'è stata
d'aiuto l'ottima capacità di scrittura dimostrata dalla Viazzoli
e la vocazione eccezionale per la filologia rivelata dalla
Giuliani''.
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