(di Marzia Apice)
TADEUSZ BOROWSKI, IL MONDO DI PIETRA
(Edizioni Lindau, Torino 2022, pagine 112, euro 14,00, epub euro
9,99 - traduzione dal polacco di Roberto Polce). A gelare il
sangue non sono tanto i racconti su ciò che di umanamente
inconcepibile l'uomo è stato in grado di infliggere a un altro
uomo durante il Nazismo, quanto l'andatura placidamente
oggettiva di una scrittura lucida e desolata, priva anche del
più piccolo barlume di speranza: è un testo utile a capire, non
solo a ricordare, "Il mondo di pietra", struggente inedito di
Tadeusz Borowski, in libreria con Lindau il 27 gennaio per il
Giorno della Memoria. La forma scelta dall'autore è quella del
racconto breve: nel libro ce ne sono 20, tutti slegati e
indipendenti, con al centro il racconto dell'orrore a cui può
giungere un essere umano che ha dimenticato la pietà.
Prigioniero numero 119198 ad Auschwitz, vittima di
sperimentazioni disumane, deportato poi a Dachau, Borowski
descrive il funzionamento quotidiano e i meccanismi dei lager
attraverso piccoli aneddoti, offrendo in queste pagine una
testimonianza potente che, pur nell'approccio distante, quasi
disinteressato, trasuda vita, o meglio il desiderio ardente di
un'esistenza non più recuperabile. E' un inferno quello che
appare davanti al lettore, un mondo folle e capovolto in cui
però non ci sono buoni o cattivi, ma solo crudeltà ed egoismo
che uniscono inevitabilmente tutti gli uomini, senza
distinzioni. Per Borowski infatti non conta molto sottolineare
quanto male è stato fatto nei campi di concentramento: inutile
soffermarsi sulle condizioni spaventose in cui i prigionieri
erano costretti a vivere, le violenze arbitrarie e gratuite, la
fame, le camere a gas, il sadismo dei gerarchi. Con la sua voce
- un "urlo" dimesso e dignitoso, ma affilato come una lama -
l'autore racconta con una pacatezza e un'onestà che mettono i
brividi la degradazione, l'abbrutimento, la disumanizzazione
anche di chi era stato deportato in quell'orrore. Persone
comuni, catapultate nella follia tragica dei lager, e poi
diventate disumane, in modo irrecuperabile, capaci di esercitare
violenza anche sugli altri prigionieri, compagni in quella
stessa sorte infausta. Non solo aguzzini contro prigionieri,
quindi, ma anche vittime contro vittime. In questa raccolta
(che in origine avrebbe dovuto intitolarsi Wielkie zmęczenie,
"La grande stanchezza"), uno degli esempi più duri nell'ambito
della letteratura concentrazionaria, Borowski offre dunque
un'opportunità ulteriore di riflessione, quella sul cinismo e
sull'egoismo che prevalgono nell'animo dell'uomo in lotta per la
sopravvivenza: il lettore troverà proprio la "banalità del male"
che Hannah Arendt intuì seguendo il processo al gerarca nazista
Adolf Eichmann. Per lo scrittore, morto suicida nel 1951 a 29
anni, nessuna speranza può essere più salvata: non esiste via
d'uscita, né rimedio per riparare a ciò che è stato fatto.
Auschwitz non è un infelice incidente di percorso nella storia
dell'umanità, Auschwitz è la quintessenza dell'umanità. Non
un'eccezione, ma la regola: è un mondo appunto "di pietra",
immutabile, sì, ma soprattutto senza più anima.
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