di Luca Prosperi
Se Antonio Gibelli scriveva che 'il
materiale mentale, compreso quello onirico e allucinatorio, è a
pieno titolo materiale storico', a maggior ragione il lavoro dei
cronisti di guerra, e in guerra, è pienamente materia da
ascrivere alla storia di un paese. Perché, e lo si capisce
benissimo nel libro del giornalista de Il Messaggero Fabio
Fattore 'Dai nostri inviati al fronte', cento anni di cronache
dall'Africa orientale, tra Adua e le ultime guerre' (Sugarco,
pp. 197, 18,50 euro), quando la cronaca diventa memoria, esprime
la mentalità e la cultura degli italiani di quel tempo, dei
contemporanei di allora.
Fattore è giunto al terzo capitolo del suo notevole lavoro di
storico del giornalismo di guerra, dopo l'epopea di Giarabub e
dei giornalisti italiani inviati nella seconda guerra mondiale,
e affronta il tema del colonialismo, dell'imperialismo e delle
missioni di pace da un'altra angolatura. Quella della creazione
quotidiana della mentalità pubblica. Da Adua a Check Point Pasta
a Mogadiscio, da Malaparte a Montanelli, fino ad Ilaria Alpi,
percorrendo una geografia toponomastica che non è solo un lungo
elenco di viali e piazze italiane: Adrigrat, Gondar, Addis
Abeba, Etiopia, Somalia, ascari o Eritrea.
Avventura, esotismo, sabbia e sole, mal d'Africa, speranze e
disillusioni di un popolo che dall'Unità in poi ha investito in
un sogno datato e perdente, quello di una visibilità coloniale,
una autobiografia di un popolo che, Fattore lo disegna benissimo
attraverso la lettura impotente, accurata e nuova di fondi,
archivi, documenti, passa più attraverso l'oscuro e rimosso
lavoro dei cronisti di massa, i 'minori' di oggi che invece
erano maggiorenti di allora. E' il grande guaio del giornalismo
inteso come lavoro: vivere l'attimo, estinguersi nella
quotidianità, il rimorchio del potere. E infatti più che sulle
pagine dei grandi consegnati alla storia del costume e della
letteratura, anche Buzzati andò in Etiopia nel 1936, è con
Ximenes, Civinini, Poggiali o Beonio Brocchieri, che si legge
bene la radiografia di un sentimento popolare: non a caso la
copertina è una foto iconica in bianco e nero, quella che tutti
i cronisti vorrebbero avere. Un uomo in camicia bianca,
sigaretta tra le labbra, seduto su un tronco di fortuna davanti
ad una tenda nella boscaglia che scrive su una piccola macchina
da scrivere portatile, foglio bianco nel rullo. Non è
Montanelli, ma Ferdinando Chiarelli, da Fossa (L'Aquila),
inviato del Giornale d'Italia in Etiopia al seguito di Starace
contro il Negus. Storia da libro cuore, inviato di guerra in
Spagna e in Russia, nel dopoguerra passa al Corriere della Sera.
Giornalisti insomma, pezzi della storia di un paese che Fattore
nobilita anche ripercorrendo di suo quei luoghi alla ricerca di
'italiani perduti'. Poi, da non perdere, la storia del somalo
studente di Radio Elettra di Torino che sbeffeggia la tecnologia
occidentale: ma questo è un altro tornante della biografia
italiana.
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