Ottant'anni fa avvenne la più grande
deportazione operaia della storia d'Europa. Un piccolo esercito
di seicento uomini, tra SS e camicie nere, marciarono su quattro
stabilimenti siderurgici di Genova e rastrellarono 1500
metalmeccanici. Li chiusero su due treni piombati diretti a
Mauthausen, poi li smistarono nelle fabbriche austriache e
tedesche per costruire i carri armati nazisti. Vissero per un
anno intero al gelo, in canottiera e zoccoli, schiavi di un
regime ormai morente, picchiati e insultati, costretti ad
assistere alla tragedia della Shoah, ai bombardamenti di Dresda
e alla battaglia finale di Berlino.
Era il 16 giugno del 1944 e le fabbriche erano quelle di
Sestri Ponente, quartiere industriale di Genova, culla del
movimento sindacale e antifascista. Non a caso gli sgherri di
Benito Mussolini scelsero proprio quelle maestranze, che avevano
appena scioperato per i diritti, il pane e la pace. Le storie di
questi operai sono raccolte in "Assalto alla fabbrica" (People,
210 pagine, 16 euro) di Giovanni Mari, giornalista del Secolo
XIX. Storie di uomini comuni, strappati alle famiglie
all'improvviso, gettati sotto gli altiforni tedeschi senza
equipaggiamento e protezioni, condannati alla fame (solo una
zuppa di rapa al giorno) e a turni di 13 ore al giorno, in
condizioni igieniche devastanti, e alla lunga spostati sul campo
di guerra, a sgomberare le macerie e a scavare trincee.
Non tutti sono tornati. Molti sono morti durante il viaggio,
cercando la fuga. Molti sono stati uccisi dai carcerieri,
diversi sono stati vittima di incidenti sul lavoro e persino dei
bombardamenti. Gli operai devono raccogliere l'acqua piovana per
dissetarsi, strappare l'erbaccia per bollirla e sfamarsi,
cucirsi delle suole per non camminare scalzi, ricavare cappotti
dai sacchi di cemento gettati nell'immondizia, rubacchiare nelle
case abbandonate per poter andare avanti. E quando arriveranno
le truppe alleate, russe o americane, a sottrarli alla
prigionia, impiegheranno settimane per rientrare a casa.
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