Paolo Petroni
ANNA LUISA PIGNATELLI, ''IL
CAMPO DI GOSTO'' (FAZI, pp. 222 - 17,50 euro). Anna Luisa
Pignatelli torna a narrarci la sua toscana, la vita in un borgo,
il rapporto difficile, anche aspro, tra il protagonista e gli
altri abitanti, ma questa volta il suo Agostino Neri detto
Gosto, più che far pensare alle anime desolate di Tozzi, ci pare
un vero povero cristo evangelico, ''un uomo positivamente
buono'' come l'idiota di Dostoevskij, del resto citato sin
dall'inizio come la prima lettura, casualmente in vendita dal
giornalaio del suo pase, Montici, del protagonista studente
della medie, cui il professor Papini aveva inculcato curiosità
per la cultura.
E' per questo suo amore per i libri, che lo rende diverso e
meno malleabile, che il padre, un minatore, lo aveva
soprannominato Storto e lui, a quella definizione, in fondo ci è
affezionato se la ricorda spesso e persino a una camicia che gli
chiede quale nome debba metter all'ordine gli propone quello,
tra provocazione e nostalgia, prima di darle il suo.
Il racconto si apre il primo giorno da pensionato di Gosto
dopo una vita come autista di un camioncino per le consegne di
una grande azienda agricola. E l'atmosfera qui è sì cupamente
tozziana: ''Steso sul materasso, gli parve di essere entrato nel
tunnel silenzioso che si apre davanti a chi, terminata la vita
attiva, ha per meta solo la morte'' e gli vengono in mente il
Casini e il Cisterni che a suo tempo si erano uno appeso a una
trave, l'altro buttato in un pozzo. Ma è solo un momento
costruito a contrasto col carattere e l'amore per la vita di
Gosto che invece segnano tutto il resto del racconto.
Come un Cristo che fa del bene, che è sempre disponibile
verso gli altri, pur patendo le prese in giro, le critiche e le
maldicenze dei compaesani di Castelnuovo, dove abita da quando
si era sposato, e le prepotenze del signorotto locale, il Terzi,
ricco e arrogante industriale del mobile da tutti temuto e
riverito, Gosto nutre fiducia profonda nel prossimo ''così come
la convinzione che chiunque fosse in grado di distinguere il
bene dal male gli aveva permesso, nel corso dell'esistenza, di
sentirsi meno solo''. Non a caso nel suo podere pianterà quelle
piante simboliche che sono gli ulivi.
Non sarà così in questi suoi ultimi anni perché la vita non
fa che continuare a creargli delusioni facendone quasi un vinto
, se non fosse che lui non si arrende mai, non perde la fiducia
nonostante, dopo che l'ha lasciato la moglie Zelia, che la sua
amata Ombretta è anche lei andata via, e così Iris e Silvana con
cui le cose sono sempre sospese, ci sia la delusione per la
figlia Mirella, che vive al di sopra delle proprie possibilità
col marito e si ritrova con la casa messa all'asta per debiti.
Così vorrebbe il padre vendesse il suo piccolo podere, l'amato
Focaia, inaspettata eredità e ora suo ultimo rifugio, rimesso in
piedi con le sue mani.
Tra il Terzi che gli è sempre contro, spalleggiato dal suo
fido Magini, con angherie grandi e piccole, come quando gli
sequestra uno dei tre bei porcini appena colti, e i coetanei che
lo dileggiano (''Perché dovrebbe mettersi a far strullate con
noi, lui è un signore''), ecco che il suo cuore si apre come
sempre per l'amicizia col giovane meccanico Nuccio e soprattutto
la comparsa della giovane e bella Stella, in cui si illude di
rivedere una promessa d'amore, ma che subisce le molestie di
Terzi e Magini. E proprio Stella, non lei direttamente ma per la
malvagità degli uomini, sarà il dolore ultimo, dopo un'inutile
lotta in nome del bene e della giustizia.
Il tutto, con un procedere piano, narrato in modo potremmo
dire arioso con la lingua, pulita, asciutta, questa sì toscana
anche nell'atmosfera che crea e poco dostoevskiana, con qualche
eco o parola dialettale, della Pignatelli, autrice nel 2016 di
un più inquietante romanzo e dalla misura quasi perfetta,
''Ruggine'' (vincitore del Premio Lugnano). Ora ''Il campo di
Gosto'', presentato da Alessandro Masi, è stato proposto al
Premio Strega.
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