Appare arroccato in cima alla Val d'Orcia, sotto Pienza, questo stupendo, microscopico paesino chiuso attorno alla suo duomo in alte mura medioevali i cui abitanti da 58 anni mettono in scena d'estate uno spettacolo teatrale che tutti assieme pensano, scrivono e recitano per riflettere sulla propria storia, sulla propria comunità e che si replica tutte le sere sino a ferragosto e vale una bella gita.
Un 'autodramma', come lo definì Strehler, di quello che si chiama Teatro Povero e che andando a fondo della propria realtà particolare per esplorarne nel piccolo le verità umane, per indagare sulle proprie radici, finisce per avere un valore esemplare, per parlare di tutti. E' quel che accade anche quest'anno con ''Il velo della sposa'' che si snoda lungo ottanta anni di storia contadina attraverso tre tappe, tre tempi, gli ultimi anni di guerra, gli anni sessanta e oggi, che segnano momenti di cambiamenti profondi sociali e di costume. E diciamo subito che, a qualche anno dalla scomparsa di Andrea Cresti, per decenni guida e anima del Teatro Povero, si è riusciti a risolvere una serie di problemi, sotto la guida dei nuovi registi, Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli. Si va dall'aver attuato il difficile ricambio generazionale in un impegno non da poco, tra ideazione e recite, da fine luglio a Ferragosto, a un'attenzione nuova al testo e una più sperimentata qualità della recitazione di molti i cui risultati sono subito evidenti nella presa dello spettacolo, nei suoi momenti alti in cui la finzione riesce a trovare la sua verità e emozionare. Ecco allora che sulla scena vuota arrivano alcune bambine eccitate per le nozze di Palmira e il mezzadro Giaccio e che parlano dei propri sogni di future donne con una vivacità e naturalezza che stupiscono. Sono gli anni del fascismo e della guerra che seminano soprusi e lutti e la vita dei due sposi, vessati dal padrone e dal suo fattore, sarà spezzata dalla partenza e morte di lui nella guerra d'Albania. La moglie e i due figli piccoli verranno subito sfrattati e ospitati da parenti e vicini. Giacco ha comunque lasciato a Tonio e Palmira il suo insegnamento di voler crescere con coscienza di sé e impegnandosi a fondo nel lavoro. E i due cresceranno ma assecondando la loro diverse propensioni che via via li separeranno del tutto, portando Palmira a studiare e impegnarsi per gli altri e Tonio a far fortuna economica, sfruttando, negli anni '60, le possibilità offerte da riforma agraria e boom economico. Palmira che torna a Monticchiello, dopo essere stata messa a servizio da giovanissima presso una signora di Colle Val d'Elsa, e cerca di insegnare a leggere e scrivere ai compaesani, è un po' la cartina di tornasole, la figura che rappresenta tutta la comunità e la sua evoluzione sul piano della presa di coscienza e di attenzione al proprio passato, cominciando dalla lingua, che nel testo è viva e parlata e usa parole del dialetto, da pichini (bambini) a scargeo (gran confusione) per non perderle. Si arriva quindi ai nostri giorni, con Tonio diventato il padrone imprenditore del paese (come lo era una volta il padrone delle terre) con le sue imprese e iniziative il quale, senza scrupoli, sfrutta tutti e ha cancellato tradizioni e proporzioni paesane per dar vita a mega matrimoni miliardari internazionali e volgari, mentre la sorella è vissuta lontano provvedendo a se stessa. Il problema è che la vita alla fine presenta sempre a tutti il proprio conto. Il programma e il libretto col testo non riportano mai nomi di registi e attori, per sottolineare il lavoro collettivo, ma almeno alcuni anziani attori oramai storici di Monticchiello si conoscono, come Arturo Vignai, vivace Tonio da vecchio, Idro Guidotti e Paolo Del Ciondolo impegnati in più parti come molti altri che, dopo gli applausi lunghi e calorosi, si ritrovano col pubblico a cenare con i pici all'aglione alla Taverna del Bronzone, aperta sempre in occasione delle recite teatrali dalla stessa compagnia cooperativa del Teatro Povero, che anche così si sostiene, visti i tagli dei contributi pubblici.
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