ALESSANDRO ORSINI, 'ISIS. I TERRORISTI PIU' FORTUNATI DEL MONDO E TUTTO CIO' CHE E' STATO FATTO PER FAVORIRLI' (RIZZOLI, 261 pp., 18 euro). ''L'Isis sta morendo. Gli attentati di Bruxelles lo dimostrano". Per Alessandro Orsini, direttore del Centro per lo studio del terrorismo di Tor Vergata e ricercatore al Mit di Boston, i morti all'aeroporto di Zaventem e alla stazione della metro di Maelbeek sono la conferma di una tesi formulata ben prima degli attacchi del 22 marzo: "I jihadisti colpiscono quando sono in difficoltà". Un ragionamento controintuitivo, di primo acchito, ma già centrale nell'ultimo saggio dello studioso, 'Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli'. Un testo che con semplicità di linguaggio e lucidità di analisi si avventura nella spiegazione di un tema per molti ostico come la nascita e lo sviluppo dello Stato Islamico, per poi cercare di capire per quali ragioni e in che circostanze si diventa jihadisti.
Ma perché dunque, tornando al titolo, i miliziani dell'Isis sono tanto fortunati? Perché il loro successo, finora, non è dipeso tanto dalla loro forza militare, decisamente modesta, quanto dall'incapacità delle potenze che li dovrebbero combattere, Stati Uniti e Russia in testa, di trovare un accordo sul controllo della Siria e dalla complessità dello scacchiere mediorientale, dove a dominare i rapporti fra Stati confinanti sono la diffidenza e la paura reciproca, anziché la volontà di far fronte comune contro la minaccia islamista.
Eppure, pensa Orsini, la fortuna degli uomini di al-Baghdadi non sarà eterna. Anzi, sotto gli oltre 12 mila raid americani e l'intervento dell'esercito di Assad e dei soldati iracheni, ha già smesso di girare dalla loro parte. Nel corso del 2015 l'Isis ha perso Kobane, Tikrit, Baiji, Sinjar, Ramadi, ora anche Palmira. Nel gennaio 2016, il Califfo ha ridotto del 50% gli stipendi a Raqqa e ha dovuto calmierare il prezzo del pane. Se continua a realizzare attentati, lo fa per convincere i governi occidentali a interrompere la lotta al terrorismo e continuare ad attrarre foreign fighters dando di sé un'immagine vincente.
Un bluff, insomma: "Arretramento in casa, avanzamento all'estero", sintetizza l'autore nel libro. Per capire i meccanismi d'azione dei miliziani del Califfato, bisogna poi aggiungere un secondo elemento: "I terroristi - scrive ancora Orsini - odiano coloro da cui sono attaccati o da cui si sentono attaccati". Tradotto, significa che, anche se ci sentiamo tutti nel mirino, la verità è che ai loro occhi una città non vale l'altra. Per colpire servono delle condizioni precise, logistiche e ideologiche. E' necessario cioè che siano presenti cellule sul territorio, ma anche che il Paese vittima degli attacchi abbia fatto qualcosa di concreto contro i jihadisti. "Nel caso del Belgio, che insieme a Francia, Gran Bretagna, Danimarca e Olanda partecipa alla coalizione che sta bombardando le roccaforti dell'Isis, entrambe queste condizioni si sono verificate", spiega l'esperto all'ANSA. "Si potrebbe anche aggiungere che all'indomani della strage di Charlie Hebdo, Bruxelles ha iniziato a usare il pugno duro contro i terroristi islamici nel Paese. Già una settimana dopo, per dire, ne sono stati uccisi due in un blitz vicino a Liegi. La Francia ha fatto pressione, visto che appunto dal Belgio venivano le armi usate da Amedy Koulibaly e dai fratelli Kouachi".
E proprio Koulibaly e i Kouachi, fra gli altri, sono fra i protagonisti della seconda parte - non meno interessante - di 'Isis', quella in cui l'autore segue passo passo i percorsi esistenziali di diversi giovani, magari nati e cresciuti in Occidente, che hanno deciso d'imbracciare le armi o addirittura a farsi saltare in aria in nome dello Stato Islamico. Sono percorsi diversi, ma con tratti comuni: microstorie che tuttavia, al pari delle grandi vicende collettive che interessano i Paesi e le regioni del mondo, non si possono ignorare se si vuole tentare di capire come funziona l'Isis, prevenirlo, combatterlo.
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