"Fellini anarchico? Sì, almeno alla fine; senza fiducia in nessun ordine sociale di cui ha fatto esperienza, e senza più fiducia in nessun ordine sociale a venire. Difendendosi, male, dal male della società, dal male della storia, dal male che è il Capitale con le sue due uniche molle, i suoi soli ideali, i suoi due feticci: il Dominio e il Denaro. Sconfitto, perdente, egli che per un tempo era sembrato un vincente assoluto. Ma, anche per questo, 'nostro'".
È una riflessione profonda e appassionata, ma anche inedita quella che Goffredo Fofi regala nel suo "Fellini anarchico", in libreria con Elèuthera Editrice.
A 100 anni dalla nascita di uno dei registi più celebri e importanti espressi dal nostro cinema, Fofi si concentra sulla lunga strada, fatta di film e personaggi formidabili, visioni grottesche e sogni incredibili, che Federico Fellini ha percorso anno dopo anno arrivando poi, nell'ultima fase della vita e della produzione artistica, a un approccio diffidente nei confronti della società e a una posizione di fatto sempre più anarchica. Il libro non è tuttavia solo il racconto delle opere cinematografiche di Fellini, ma è molto di più, perché l'autore offre il contesto in cui quei lavori sono nati descrivendo gli elementi - politici, sociali, artistici - che ne hanno costituito la sostanza. Se il fulcro del volume è ovviamente il percorso felliniano, lo sguardo però si allarga al Paese tutto e a quel cinema d'autore immortale e irripetibile di cui Fellini è stato uno dei massimi protagonisti. Un cinema, scrive Fofi, che è stato non solo "testimone e narratore", ma anche "negli anni tra i Quaranta e i Settanta del Novecento l'investigatore formidabile di una comune vitalità che ha segnato una stagione di film rappresentativi degli umori 'della base' e 'della maggioranza', dall'alto al basso della scala sociale, e che ha dimostrato una creatività e prodotto un'arte all'altezza delle esigenze più nuove".
In questo clima e in quel cinema Fellini ha raccontato se stesso, la sua arte e l'Italia, acquisendo passo dopo passo una maturità che lo ha condotto verso il rifiuto nei confronti del mondo che aveva davanti. Da "La dolce vita", che Fofi definisce "un'opera-cerniera, 'epocale', ed è il film della conversione felliniana a una libertà creativa quasi assoluta", fino agli ultimi, emblematici film, Fellini è stato non solo un grande affabulatore, ma anche il cantore degli ultimi e un osservatore della "mutazione antropologica" e dell'alienazione, ormai sintomi evidenti di una società malata. E la tendenza anarchica, già rilevata dal critico André Bazin e più tardi dallo scrittore Daniel Pennac, è per Fofi ciò che accomuna Fellini a Carmelo Bene e Pierpaolo Pasolini: tre giganti "rispettosamente rivali" tra loro, distanti dalla società ma innamorati dell'Italia, radicali (ma solo Bene si dichiarò apertamente anarchico) nel loro rifiuto, tutti profeti inascoltati. Proprio il confronto-relazione tra i tre è una delle parti migliori del volume: da un lato Bene, poeta, "il più diverso" di tutti, superbo e solitario, dall'altro il "poeta-vate" Pasolini, tradito dal suo tempo, geniale e raffinato intellettuale, disperatamente coinvolto anima e corpo nella sua lotta contro un presente corrotto; tra di loro Fellini, curioso ma ormai via via sempre meno ironico e più consapevolmente critico, capace di osservare come un antropologo gli italiani e le loro debolezze.
"E' sul fallimento di una società che infine Fellini ragiona negli ultimi film - scrive Fofi -. Ed è qui che sentiamo Fellini più vicino, amaro della nostra stessa amarezza".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA