(di Paolo Petroni)
MARIA GRAZIA CALANDRONE, ''DOVE NON
MI HAI PORTATA'' (EINAUDI, pp. 250 - 19,50 euro). ''Scrivo
questo libro perché mia madre diventi reale'' afferma sin
dall'inizio Maria Grazia Calandrone, spiegando di aver esplorato
''un metodo per chi ha perduto la sua origine, un sistema
matematico di sentimento e pensiero, così intero da rianimare un
corpo, caldo come la terra d'estate, e altrettanto coerente''.
L'autrice e oggi nota poetessa la madre, Lucia Galante, non
la ha mai praticamente conosciuta, essendo quella bambina che il
24 giugno 1965 fu abbandonata a otto mesi dietro i cancelli di
Villa Borghese a Piazzale Flaminio. Una storia che finì per
giorni su tutti i giornali col ritrovamento della madre nemmeno
trentenne e il padre biologico, Giuseppe Di Pietro, annegati nel
Tevere, suicidi, dopo aver imbucato una lettera per 'L'Unità' in
cui spiegavano chi era la bambina e che si chiamava Maria Grazia
Greco.
Per arrivare a scrivere questo libro, frutto di una lunga
indagine, di ricerca di testimoni, di documenti di archivio, nel
tentativo di ricostruire con minuzia e cercar di capire vite
precedenti e mosse e motivi di quei gesti estremi. Prima ecco
quindi l'Italia provinciale, contadina e perbenista degli anni
'50 nelle campagne del Molise e lo svolgersi di una storia al
femminile, di pregiudizi e amore, sino alla fine, che è tutta in
quella dichiarazione: ''Vengo a te dove non mi hai portata,
nella morte'', non tirandosi indietro davanti a nulla, nemmeno
lo studio dei cadaveri degli annegati, per trovare qualcosa che
la aiuti a spiegare modalità e ragioni.
Non si pensi però a un giallo dai risvolti neri, che questo è
tutt'altro, è un gesto d'amore e di cui si avverte la necessità
e che per poter essere espresso ha dovuto aspettare
cinquant'anni, raccontando come un romanzo la vita di Lucia,
innamorata di Tonino, ma data sposa a un contadino grazie a un
suo campo confinante, Luigi Greco detto Centolire, che non la
toccherà mai, che la picchia, la umilia, non le dà da mangiare e
la usa come serva. ''Io credo questa povera ragazza ha sofferto
tantissimo. E che le sue sofferenze sono servite a darti tanto
onore a te'', come dice una vecchia del paese, Palata in
provincia di Campobasso, rintracciata dalla Calandrone.
Un romanzo anche quindi di denuncia della condizione
femminile in quegli anni, violentata e umiliata, che aiuta a
capire. Lucia poi incontrerà Giuseppe, operaio di cui si
innamora e col quale, per cercar di trovare un po' di libertà,
letteralmente fugge al nord, a Milano, quella agra di
Bianciardi, dove comunque arriva la denuncia per adulterio,
secondo le leggi sulla famiglia allora ancora in vigore, e le
difficoltà economiche e di lavoro si fanno molto pesanti. Le
aggrava la nascita della figlia Maria Grazia, che prende il
cognome non di Di Pietro, il vero padre, ma Greco, quello del
marito della mamma, che scriverà un'aspra, terribile lettera per
disconoscere quella paternità. Prendono allora il sopravvento
vergogna, sensi di colpa e ''condizioni disperate'': ''Non ho
scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla
compassione di tutti'', come si legge nell'ultima lettera.
''Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e
ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso
vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano'', scrive
Calandrone e questo ritrovarsi, tutta la storia è narrata
appunto come una scoperta di cui il lettore diventa partecipe,
grazie a una scrittura alta, vera, priva di sentimentalismi,
tesa e intensa, lucida e emotiva tanto che, quando il dolore del
dire, il riferire si fa indicibile, si fa lirica e, in alcuni
punti, il coinvolgimento si scioglie proprio in versi,
acquistando l'immediatezza, la forza antiretorica e la
profondità della poesia. ''Ci sono io che dal futuro ti guardo /
calarti piano in quello specchio atomico / in quella fine del
mondo, e ti guardo / e ti lascio / libera, ti lascio / e, per
me, prendo solo da chiarire / la solitudine della tua materia /
disabitata. / Siamo dentro una vasca di luce. Ogni passo che
faccio verso di te fa un rumore subacqueo''.
Questo ''Dove non mi hai mai portata'' è una riconciliazione
con la figura della madre, che arriva due anni dopo la poetica
scrittura in prosa di ''Splendi come vita'' sul rapporto, non
facile, tanto da finire infranto e vissuto con dolore sino alla
catarsi finale, con la madre adottiva. A proposito Calandrone
spiegava: ''Chi scrive rivede oggi la madre con gli occhi di una
donna adulta, non più solo come la propria madre, ma come una
donna a sua volta adulta, con la sua storia e i suoi propri
dolori e gioie. Quando si smette di vedere la propria madre
esclusivamente come la propria madre, la si può finalmente
'vedere' come essere separato, autonomo e, per ciò, tanto più
amabile''.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA