Nel 2022 i salari e gli stipendi in
Italia hanno perso mediamente circa il 10% del loro valore a
causa dell'inflazione, e addirittura intorno al 12% se si
analizzano i beni di prima necessità, ed è ipotizzabile una
perdita simile nel 2023 a meno che non venga reintrodotta la
'scala mobile' cioè l'indicizzazione delle retribuzioni. E'
quanto sostiene in un focus il Centro Studi Cub che si basa su
dati Istat e di altri centri ricerca.
I dati certificano che le "spinte inflazionistiche a fine
dell'anno scorso erano ancora altissime. L'inflazione media -
viene rimarcato - del quarto trimestre (+11,7% in termini
tendenziali) ha segnato, addirittura, un'ulteriore decisa
accelerazione rispetto ai tre mesi precedenti (+8,4%)".
Il rallentamento dell'inflazione a dicembre "è dipeso dai
prezzi dei beni energetici (+64,7% da +67,6% di novembre) e dai
beni alimentari non lavorati (+9,5% da +11,4%). Di contro, la
componente dei beni lavorati è accelerata (+14,9% da +14,3%) a
fronte di una sostanziale stabilizzazione di quella degli altri
beni (+5,1% da +5,0%). I prezzi dei servizi hanno mostrato
complessivamente un dinamismo crescente (+4,1% da +3,8%) con
l'eccezione dei trasporti (+6,0 da +6,8%)".
A fronte di un'inflazione alta e persistente - osserva il
Centro Studi Cub -, si aggrava quindi la perdita del potere
d'acquisto di salari, stipendi e pensioni. Secondo "il rapporto
Aran" le retribuzioni contrattuali medie annue dei dipendenti
pubblici sono cresciute tra il 2013 e fine settembre 2022 del
6,7% a fronte di un aumento dei prezzi nello stesso periodo del
13,8% e una crescita dei salari del privato esclusi i dirigenti
dell'11,6: sono quindi oltre sette i punti percentuali persi per
il potere d'acquisto dei salari. Da notare "che il rapporto si
ferma a settembre 2022" quando l'inflazione acquisita in corso
d'anno era già al 7,1% a fronte di un aumento delle retribuzioni
pubbliche dello 0,9%.
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