Sulla cassetta della posta dell'appartamento 166 ci sono i loro due nomi insieme: Boumeddienne-Coulibaly. Il secondo è aggiunto a penna, perché Amedy, il terrorista di Porte de Vincennes, era andato a vivere a casa della compagna Hayat solo in un secondo momento.
"Erano gentilissimi. Siamo scioccati. Ora i miei figli non vogliono più uscire di casa", racconta all'ANSA una loro vicina, uscendo dallo stabile di 5 piani vicino al centro di Fontenay aux Roses, periferia sud di Parigi. Non una banlieue disagiata, teatro di scontri e della difficile integrazione, ma un piccolo centro ordinato, abitato prevalentemente da famiglie bene della classe medio-alta. "Lui non lo vedevo spesso, lei invece usciva presto tutte le mattine per andare a lavorare", racconta ancora la vicina che ricorda quando la giovane Hayat si trasferì in quel palazzo prima di diventare la 'fidanzata del killer': "Portava già il velo, ma andava in giro con una moto". Due ragazzi "molto cordiali", insomma, di quelli che "ti aprivano sempre la porta".
"Questo è un palazzo molto tranquillo, abitato soprattutto da coppie. Non c'è mai stato un problema", spiega anche il proprietario della Gastronomie Indienne a fianco. Ma quei due non se li ricorda: "Finito il lavoro al ristorante, me ne vado a casa". Eppure Hayat Boumeddiene - un'infanzia difficile dopo la morte della mamma e oggi, a 26 anni, la donna più ricercata di Francia - indossava il velo in una zona dove se ne vedono pochissimi, difficile che passasse inosservata. Insieme dal 2009, con Amedy erano sposati solo 'religiosamente'. E insieme si sono fatti fotografare armi alla mano.
All'ingresso dello stabile, presidiato da due auto della polizia, è un via vai di agenti, in divisa e in borghese. Setacciano l'appartamento al primo piano, alla ricerca di indizi, prove, collegamenti, qualcosa che possa spiegare la furia assassina di Coulibaly o metterli sulle tracce di Hayat, descritta come "armata e pericolosa". La porta viene poi chiusa con i sigilli, e i giornalisti tenuti a distanza. Fuori, una macchina si ferma davanti al marciapiede, la pattuglia di guardia si irrigidisce. Scende una signora che si avvicina agli agenti, creando un po' di tensione in un momento in cui la Francia, e le forze dell'ordine, non si sentono affatto al sicuro. "Volevo solo ringraziarvi per quello che state facendo", dice loro. E i poliziotti si sciolgono in un sorriso.
Sul portoncino di vetro dell'edificio, uno dei tantissimi adesivi con la scritta "Je suis Charlie" su sfondo nero, simbolo della solidarietà alle vittime del massacro dei fratelli Kouachi alla sede di Charlie Hebdo mercoledì a Parigi. Ma è strappato. Uno degli investigatori lo indica e dice: "Rifletteteci". Non tutti però hanno voglia di parlare. "Sì è vero, erano i nostri vicini - ammette concitata un'altra signora - ma anche noi vogliamo un po' di tranquillità".
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