"Un giorno sentii un uomo cantare l'aria di Tosca più famosa, 'E lucevan le stelle'. Vidi da lontano tre SS che correvano, entrarono nella baracca da cui proveniva la voce, e il canto finì. La sera altri prigionieri mi dissero che era stato ucciso, e così tutta la sua famiglia. Era un tenore famoso. Per me questo episodio è il simbolo di Auschwitz. E da allora, ogni volta che sento Tosca, torna tutto su". Tadeusz Smreczynski, polacco, finì prigioniero del lager nazista a 19 anni. E 70 anni dopo la liberazione, in un incontro a Cracovia organizzato dall'associazione della stampa straniera tedesca VAP, cui ANSA ha partecipato, torna sui suoi ricordi. Una memoria che avrebbe voluto cancellare, senza mai riuscirci: "Fino agli anni '60 non ne avevo mai parlato. Poi un giorno qualcuno vide il numero, e mi disse: 'Tu ci sei stato, raccontaci Auschwitz'".
Un'impresa affrontata per il resto dei suoi giorni nella consapevolezza che milioni di persone si recano nel lager, per sapere, ancora oggi. Il rapporto con il passato di un uomo delicato, colto, che ogni volta torna "bianco cadaverico" dalle sue testimonianze, come gli rimprovera la moglie, si capisce proprio dalla sorte di quelle cifre, tatuate nel lager. "Nel dopoguerra studiai per diventare medico. E quel numero me lo trovavo davanti di continuo, quando mi lavavo le mani, pensavo sempre di volerlo rimuovere. Ma il giorno della laurea, sedetti accanto alla professoressa Koeaczyk, ex prigioniera come me. Vidi il numero e le chiesi 'professoressa, quando se lo fa levare?'. E lei, 'mai'. Questa risposta mi fermò per i successivi 20 anni. Poi un giorno, in un momento difficile della mia vita, chiesi a un collega chirurgo di eliminarlo. Lui lo fece, ma mi è rimasto sempre nella testa".
Il racconto di Smreczynski è particolarmente toccante. Ai dettagli sulla prigionia, i numeri abominevoli appresi poi, la brutalità, si alterna la ricostruzione di un percorso particolare, di uno dei pochi superstiti dell'orrore. Disseminato di momenti di umanità profonda, come quando decise di cedere la sua razione di pane a un uomo che glielo "chiedeva per salvarsi, poiché aveva dei figli". Questo significava rischiare di morire, ad Auschwitz. Quando gli si chiede come sia stato possibile uscirne vivo, risponde: "Io avevo 19 anni, ed ero in buone condizioni fisiche e psicologiche, ma certamente ho soprattutto avuto fortuna. Anche alcuni gesti di alcuni tedeschi, come quelli di alcuni polacchi, mi hanno aiutato": Tadeusz aveva studiato il tedesco al ginnasio, e fu uno di quei prigionieri che ebbe la possibilità di lavorare, finendo in uno dei "posti" migliori del campo, la cucina: "Scelsero dieci candidati su 60, io ero fra quelli". "In un primo momento volevano che facessi l'interprete e traducessi gli ordini del capò - racconta ancora -. Ma io mi rifiutai: 'questo non lo faccio'". Nel suo racconto usa sempre il polacco, pur capendo le domande in tedesco, e del rapporto con il popolo responsabile dello sterminio dice: "Io ho già incontrato oltre 1000 giovani tedeschi in questi anni. La mia esperienza mi dice che non esiste un popolo cattivo e uno buono, ma che ovunque è possibile che vi siano dei criminali, o persone capaci di atti nobili. Ho letto Kant, e filosofi russi, francesi, italiani: sono dell'idea che la nazionalità sia un elemento secondario. Quello che conta è che uomo sei".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA