Una 'pecora nera' tra i mattoncini rossi della moschea di West Didsbury. Gli stessi delle casette con piccoli prati all'inglese che ingentiliscono quest'area della periferia sud di Manchester, all'apparenza tutt'altro che marginale. E' qui che Salman Abedi, figlio 22enne d'ex rifugiati libici che lunedì sera si è fatto esplodere da terrorista suicida alla Manchester Arena, dilaniando se stesso e le sue vittime, veniva abitualmente a pregare. E, pare, a contestare.
L'imam Mohammed Saeed El-Saeiti lo ricorda e non lo nega. Ma è molto attento a prenderne le distanze, a chiedere di "evitare equivoci", come dice. Salman "non mi piaceva, mi sembrava un pericoloso estremista", rimarca insistentemente. Non solo: l'imam giura di aver parlato chiaro contro l'Isis, di averne denunciato le atrocità "nei sermoni del Venerdì", aggiungendo di rammentare il volto di Abedi fra quelli di "un gruppetto di giovani" che mostrava di non gradire le sue parole. Saeiti non dice altro. E affida per il resto il suo messaggio al sito del Manchester Islamic Centre: dove una nota condanna l'attentato di lunedì come "un'orribile" strage.
Dinanzi al tempio di Allah, che ha tutta l'aria di essere una chiesa 'dismessa', quell'attacco tuttavia è come se non ci fosse mai stato. Nessuno dei poster o degli avvisi affissi testimonia iniziative di solidarietà, in un città in cui pure tanti musulmani hanno partecipato alla veglia pubblica di ieri e dove i gesti d'aiuto sono stati numerosi. Un cartello invita chi fosse interessato a "socializzare per conoscere l'Islam", in riunioni ad hoc, con rinfresco, "ogni domenica". Un altro a "donare" denaro per le esigenze della moschea. Un terzo, più in là, indica l'ingresso separato per le donne ("for women only").
Nessun segno invece dell'Union Jack che domina altrove le strade della città, con la scritta 'Prayer for Manchester' (una preghiera per Manchester) e l'invito a essere "uniti". Né delle stampe di disegni di bambini che si moltiplicano ovunque con il motto 'I love Manchester' segnato dal consueto cuoricino.
La zona attorno è mista, quanto a radici e provenienza sociale. Le case sono perlopiù linde e curate, si nota qualche automobile costosa parcheggiata. E non dissimile, a poche fermate di bus, si presenta Elsmore Road, quieta stradina chiusa in cui fra tanti altri vivevano i fratelli Abedi e una piccola quanto appartata comunità di libici. Oggi è presidiata dalla polizia e le porte sono chiuse. Nessuno sembra volersi far vedere. Meglio tornare verso la moschea dove Serdan, origini turco cipriote, da 30 anni a Manchester, racconta intanto una storia un po' diversa rispetto all'imam. E' musulmano, ma "non praticante", precisa. "Non mi fido dei religiosi, in troppe moschee si fanno discorsi sbagliati e poi spuntano giovani pronti a farsi fare il lavaggio del cervello e a credere che in paradiso li attendano 40 vergini se si fanno esplodere", borbotta, lamentandosi anche di "quei libici arrivati non molti anni fa, stanno sempre per conto loro". Shelly, una tassista bionda parcheggiata lì vicino, approva senza riserve. "E poi - riprende Serdan scuotendo il capo - in moschee come quella di Didsbury comanda la Fratellanza Musulmana".
Abdullah, autista nato in Gran Bretagna da genitori pachistani, non ha invece alcun problema a dire che lui quella moschea la frequenta, "ogni tanto". Né a mostrare la barba lunga e un po' squadrata che spesso anche i Fratelli sfoggiano. "L'imam - esordisce - ha ragione a dire che Salman Abedi era un estremista, io non l'ho conosciuto, ma so che è capitata qui qualche testa calda. Piccoli gruppi però, e comunque conosciuti dalle autorità". Del resto, ciò "non significa che chiunque abbia opinioni diverse sia un terrorista; i libici hanno un'altra mentalità rispetto a me, eppure con alcuni di loro ho un buon rapporto, è brava gente". Quanto ai legami coi Fratelli Musulmani, glissa. "Noi tutti - taglia corto - crediamo nella legge della Sharia. E questo non è estremismo".
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