"Una guerra politica", una "interferenza elettorale", un "processo vergognoso" da "Paese del terzo mondo o repubblica delle banane", portato avanti da un un giudice "fazioso e squilibrato" e da una procuratrice (afroamericana, ndr) "razzista e corrotta" al soldo dei dem e di Soros. Primo ex presidente a sedersi sul banco degli accusati sotto giuramento in tribunale in oltre un secolo, Donald Trump ha trasformato nell'ennesimo show il suo atteso interrogatorio nella causa civile a New York per i presunti asset gonfiati allo scopo di ottenere condizioni più vantaggiose da banche e assicurazioni. Ma si è trovato di fronte un giudice coriaceo che gli ha tenuto testa, minacciandolo anche di privarlo della deposizione.
"Signor Trump, lei può attaccarmi, può fare quello che vuole, ma per favore risponda semplicemente alle domande, niente discorsi", lo ha messo più volte in guardia il presidente del tribunale Arthur Engoron per frenare le sue divagazioni e intemperanze. Il giudice ha anche alzato la voce chiedendo ai suoi difensori di stare seduti e di "controllare" il loro cliente. "Questo non è un comizio politico, è un'aula di tribunale", ha ammonito.
L'ultimo ex presidente a sedersi sul banco degli imputati fu Theodore Roosevelt nel 1915, in un processo per diffamazione.
Ora c'è lui, il frontrunner repubblicano nella corsa alla Casa Bianca, con quattro processi sul capo ma il vento in poppa dei sondaggi che lo danno in vantaggio su Joe Biden in cinque su sei Stati in bilico. Il tycoon non è nuovo alle aule di giustizia, dove dal 1986 ha testimoniato almeno in otto processi in varie vesti, da patron di una squadra di football a costruttore di casinò e acquirente di una compagnia aerea. Ma questa è la sua prima volta da ex presidente, anche se nei panni del capo della holding di famiglia. La sua linea difensiva è stata quella di scaricare sui contabili eventuali errori, come hanno già fatto nei giorni scorsi i figli Donald Jr ed Eric, anche loro sotto accusa, mentre Ivanka sarà sentita mercoledì ma solo come testimone. Ma rivendicando che alcuni asset valgono più delle stime dell'accusa, considerando peraltro che non ha usato il valore suo del "brand", quello grazie al quale "sono diventato presidente". Infine ha ricordato che le dichiarazioni finanziarie avevano una clausola di esclusione della responsabilità e che comunque banche e assicurazioni non hanno perso un dollaro.
Ogni domanda è stata un'occasione per attaccare l'inchiesta, la procuratrice generale Letitia James e il giudice Arthur Engoron. L'obiettivo era provocare, cercare lo scontro per creare un precedente da impugnare in appello o uno scambio da gettare in pasto ai social per raccogliere fondi e mobilitare la base elettorale. Ma il giudice, come pure l'accusa, non è caduto nella trappola mantenendo la calma e limitandosi a contenere l'incontenibile Trump, che ha già multato due volte in passato per aver violato il suo divieto di non criticare lo staff del tribunale.
Il tycoon aveva surriscaldato l'atmosfera con alcuni attacchi prima dell'udienza, sul suo social Truth e poi parlando ai reporter davanti al tribunale, evocando una persecuzione politica istigata dal suo rivale Joe Biden e la solita "caccia alle streghe". Ma la Pm l'aveva prevenuto sulle scale del palazzo di giustizia: Trump ha "ripetutamente e costantemente travisato e gonfiato il valore dei suoi beni. Alla fine, l'unica cosa che conta sono i fatti e i numeri. E i numeri, amici miei, non mentono". Tanto che il giudice ha già stabilito l'esistenza delle frodi e si tratta solo di quantificare la sanzione: il rischio è una ammenda sino a 250 milioni di dollari, la perdita di controllo su parte dell'impero e la compromissione di quel brand su cui il tycoon ha costruito la sua fortuna economica e politica.
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