Al centro una sedia vuota.Ai lati, Kiana e Ali, i due figli gemelli di Narges Mohammadi, Nobel per la Pace 2023. Nel giorno della consegna del premio, sul palco del municipio di Oslo va in scena la tragedia della repressione alla quale Teheran sottopone la sua gente, le donne prima di tutto.
Narges, attivista iraniana per i diritti umani, non può ricevere il premio perché dal 2021 è rinchiusa nella prigione di Evin, l'inferno dei detenuti politici, a causa della sua campagna contro l'uso obbligatorio dell'hijab e contro la pena di morte. A farlo, al suo posto, sono i suoi due ragazzi, 17 anni, riusciti ad arrivare ad Oslo solo perché dal 2015 vivono in esilio in Francia. Leggono un po' ciascuno il discorso scritto in cella dalla mamma che è riuscita a farlo uscire di nascosto dalle "alte e fredde mura di una prigione" e dalla quale scaglia un attacco durissimo alla Guida Suprema Ali Khamenei e ai suoi. Un "regime religioso tirannico e misogino" lo definisce Narges, che racconta la sua storia personale e quella del suo Paese con poche, scarne, pennellate. "Sono una donna mediorientale e vengo da una regione che, nonostante la sua ricca civiltà, è ora intrappolata tra la guerra, il fuoco del terrorismo e l'estremismo", scrive la premio Nobel raccontando il presente ma guardando al futuro: "Il popolo iraniano smantellerà l'ostruzionismo e il dispotismo attraverso la sua perseveranza. Non abbiate dubbi: questo è certo".
Parole di una donna che, arrestata e condannata più volte negli ultimi decenni, non ha intenzione di mollare e continua a denunciare la repressione, la mancanza di un sistema giudiziario indipendente, la propaganda, la censura e la corruzione. E la cui lotta "è paragonabile a quella di Albert Lutuli, Desmond Tutu e Nelson Mandela, che ebbe luogo più di 30 anni prima della fine del sistema di apartheid in Sud Africa", afferma la presidente del Comitato norvegese per il Nobel Berit Reiss-Andersen evocando figure divenute leggendarie per chi lotta in tutto il mondo a favore dei diritti civili.
Davanti alla famiglia reale norvegese e ai dignitari stranieri risuona 'Donna, Vita, Libertà', la parola d'ordine che ha riempito le piazze di tutto il Paese dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne curda deceduta nel 2022 mentre era sotto la custodia della polizia morale, arrestata perché non indossava il velo islamico in modo corretto e si intravedeva qualche ciocca di capelli. E che ha fatto oscillare paurosamente la stabilità del regime degli Ayatollah che si è salvato grazie a migliaia di arresti e all'assassinio di oltre 550 persone, tra le quali moltissime donne e ragazzini.
"L'hijab obbligatorio imposto dal governo non è né un obbligo religioso né una tradizione culturale, ma piuttosto un mezzo per mantenere l'autorità e la sottomissione in tutta la società", scandiscono i figli di Mohammadi dando la propria voce a quella della mamma che proprio nel giorno della consegna del Nobel ha iniziato uno sciopero della fame "in solidarietà con la minoranza religiosa baha'i" la più grande dell'Iran, bersaglio di una discriminazione mirata.
Sullo sfondo del palco, una gigantografia di Narges, la folta e scura chioma riccioluta e scoperta. Da far venire i brividi a Khamenei. Alla fine, tutti in piedi per una standing ovation venata di emozione.
Intanto le autorità iraniane hanno impedito di partire per Parigi per ritirare il Premio Sakharov ai genitori e al fratello della 22enne Mahsa Amini, la giovane curda-iraniana morta l'anno scorso mentre era sotto la custodia della polizia morale per avere indossato il velo non correttamente. Il premio è stato assegnato postumo alla giovane vittima. Lo ha dichiarato all'Afp l'avvocato della famiglia in Francia. "Ai familiari è stato vietato di salire sul volo che li avrebbe portati in Francia nonostante avessero il visto", ha detto Chirinne Ardakani. "I loro passaporti sono stati confiscati", ha aggiunto.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA