La caccia è quasi finita dopo 14 anni d'inseguimento implacabile, la preda è ormai a un passo dall'estradizione negli Stati Uniti: le cui prigioni - denunciano familiari e sostenitori sparsi per il mondo - potrebbero diventare la sua tomba. Per Julian Assange si consumeranno nei prossimi giorni le ultime speranze di un via libera in extremis della giustizia britannica almeno all'esame di un ulteriore appello di merito sulla sua consegna o meno alle autorità d'oltre oceano.
La partita finale sulla trincea dei tribunali del Regno si è chiusa oggi, dopo due giorni di udienza, dinanzi a un'accoppiata di giudici dell'Alta Corte di Londra. I quali hanno preso tempo per valutare le argomentazioni contrapposte delle parti nel ricorso contro il rifiuto di primo grado di riaprire il caso.
Caso da cui dipende il destino di una certa idea d'informazione, oltre a quello personale dell'ex enfant terrible australiano, cofondatore di WikiLeaks e modello antagonista di giornalismo online: divenuto una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700.000 documenti riservati - autentici e non privi di rivelazioni imbarazzanti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan - sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato grazie a simboli del whistleblowing come Chelsea Manning.
L'esito interlocutorio delle udienze è stato comunicato in cella ad Assange, impossibilitato non solo a presenziare di persona ma anche ad assistervi in videocollegamento a causa dell'aggravamento - denunciato dai legali e da sua moglie Stella - di condizioni di salute sempre più precarie dopo quasi 5 anni di reclusione preventiva nel tetro carcere di massima sicurezza di Belmarsh (seguiti ai sette da rifugiato nella clausura murata di una stanza dell'ambasciata dell'Ecuador a Londra). Declino riflesso del resto, sguardo di sfida a parte, nell'ultima immagine da "prigioniero politico" fatta filtrare oggi stesso da WikiLeaks, in cui Julian appare quasi un clone dell'abate Faria di Dumas, almeno 10 anni più vecchio rispetto ai 53 scarsi certificati dall'anagrafe.
Un esito su cui Stella Assange ha mostrato comunque di non farsi troppe illusioni, rivolgendosi alle centinaia di dimostranti - inclusa una delegazione italiana del Movimento 5 Stelle - che anche oggi si sono radunati a Londra sotto le insegne della campagna 'FreeAssange'. Persone che Stella, avvocata sudafricana specialista nei diritti umani, ha invitato a continuare a protestare "finché Julian sarà libero". Anche per "dimostrare ai giudici che il mondo li guarda" e ammonirli che il trasferimento in America è di fatto una questione "di vita o di morte" per il marito: non molto diversamente, nelle sue parole, da quanto appena capitato nella Russia di Vladimir Putin ad Alexei Navalny.
Toni fatti propri fra gli altri da testate e organizzazioni giornalistiche come Reporter Senza Frontiere, da Amnesty International, da esperti dell'Onu e dall'attuale governo laburista di Canberra di Anthony Albanese. E che tuttavia non è detto affatto possano bastare a convincere i giudici Sharp e Johnson, titolari dell'ultima parola per conto dell'Alta Corte londinese sullo sfondo di un percorso giudiziario finora largamente impermeabile alle ragioni della difesa.
Giudici dinanzi ai quali gli avvocati di Assange, Edward Fitzgerald e Mark Summers, e quella incaricata di rappresentare il dipartimento di Giustizia statunitense, Clair Dobbin, hanno inscenato l'ultima puntata - salvo possibili code alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - d'una specie di dialogo tra sordi. Con i primi a evocare lo scenario di "una persecuzione contro la legittima attività giornalistica" del loro assistito e il diritto a far valere a tutela di Assange non solo le considerazioni sulla sua salute ma pure le indiscrezioni svelate negli ultimi anni sui piani discussi con la Cia ai tempi dell'amministrazione di Donald Trump su ipotesi di rapimento o assassinio del reprobo. E Dobbin a negare qualunque sospetto di "vendetta politica" e a sentenziare che Assange sarebbe andato "oltre i limiti del giornalismo", mettendo a suo dire in pericolo la vita d'informatori Usa o "incoraggiando l'attività di hacker come Manning".
L'avvocata di Washington non ha mancato poi di "rassicurare" che il fondatore di WikiLeaks non sarà condannato negli States alla pena massima di 175 anni di carcere paventata dai suoi difensori: malgrado l'imputazione contro di lui resti improntata alla micidiale accusa di violazione dell'Espionage Act del 1917, vecchia legge draconiana applicata finora solo nei confronti di spie o militari traditori, non certo di cittadini non americani e men che meno per vicende di pubblicazione mediatica di documenti segreti.
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