Un anno è passato da quella mattina, quando su tutte le televisioni del mondo le immagini di terroristi sui pick up che sparavano raffiche indiscriminate contro i civili per strada sembravano arrivare da qualche disgraziata cittadina araba assaltata dall'Isis. Un momento iniziale di confusione, poi la tv ha mostrato le coordinate: il posto era Sderot, città israeliana vicina al confine con Gaza, abitata per la maggior parte da ebrei originari da Marocco, Romania, Russia, Kurdistan.
Era il 7 ottobre, fine della festa della Simchat Torah e giorno di riposo di Shabbat. Oltre che cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur. Quelli che falciavano la gente erano i fondamentalisti di Hamas insieme con altri gruppi jihadisti della Striscia di Gaza. Quest'anno la data coinciderà con il 22 Tishrei del calendario ebraico. In mezzo ci sono 12 mesi in cui oltre a Israele, pure il resto del mondo ha visto succedere l'inimmaginabile.
Gli israeliani sono crollati, nonostante la loro resilienza leggendaria. Il ministero della Salute è stato costretto ad aumentare il budget per le cure psichiatriche e l'assistenza alla popolazione sotto shock. Nel Paese non si è mai registrato un consumo di psicofarmaci come nell'ultimo anno. L'economia segna rosso, il turismo non c'è più, i giovani sono nei battaglioni che combattono a Gaza e al confine con il Libano, i trentenni sono stati richiamati.
Molti residenti, migliaia, hanno lasciato lo Stato ebraico scegliendo di tornare a vivere in Europa, nei Paesi di cui hanno anche la cittadinanza. Tanti altri ci stanno pensando. Ma la maggior parte non saprebbe dove andare, specialmente quei novecentomila, con i loro figli, nipoti e pronipoti, che in Israele sono arrivati dopo il 1948, dopo essere stati espulsi dai Paesi arabi e dall'Iran.
Ora che si avvicina l'ora delle cerimonie per commemorare le vittime del 7 ottobre, di giorno in giorno l'atmosfera sembra farsi più cupa in Israele, pure nella città che non dorme mai, nella Miami sul Mediterraneo: Tel Aviv continua con le sue feste sulla spiaggia, le bevute e i joint sul lungomare, ma appare più una forma di resistenza necessaria che spontanea. Non appena si parla singolarmente con qualcuno, di qualsiasi età, emerge la crisi di un intero popolo.
Quella mattina le sirene dell'allarme antiaereo hanno preso a suonare intorno alle 6.30. I razzi sono partiti in raffiche da Gaza verso il sud di Israele. Quasi contemporaneamente migliaia di miliziani fondamentalisti di Hamas, Jihad islamica e di civili palestinesi si sono rovesciati a sciami su Israele con auto, moto, furgoni, camioncini, parapendii. Urlando Allahu akbar a ogni passo, buttando giù a colpi di granate e Rpg la recinzione supertecnologica piazzata da Israele al confine.
In seimila, non tremila come riteneva l'intelligence fino al mese scorso, sono piombati nei kibbutz e negli insediamenti meridionali, alcuni a poche centinaia di metri dal confine con la Striscia. Un esercito di fondamentalisti con un arsenale di armi enorme. I reporter palestinesi che Hamas si è portato appresso hanno documentato con le loro telecamere la presa di basi militari, gli attacchi, la corsa verso il territorio nemico. I terroristi più esperti hanno ripreso ogni singola azione in diretta con le telecamere go-pro, gli altri con i cellulari: ogni massacro postato subito per farlo vedere al mondo.
Israele è crollato nel caos. L'esercito, la polizia, il personale della sicurezza non sono arrivati nei luoghi presi d'assalto per lunghissime ore, anche giorni in alcune zone. Ancora oggi resta oscuro il motivo della mancata coordinazione immediata nella risposta all'attacco. I miliziani hanno avuto tutto il tempo per mettere in atto la carneficina pianificata per anni da Yahya Sinwar e Mohammed Deif. Hanno preso cibo dal frigo delle loro vittime, usato le loro toilette, violentato giovani donne e ragazzine uccidendole alla fine con un colpo alla nuca. Hanno sparato in faccia ad anziani, ucciso padri e madri davanti ai figli, nonni davanti ai nipoti, sgozzato neonati nei lettini, come ha potuto vedere l'ANSA in uno dei filmati mostrati ad alcuni giornalisti europei dalle autorità israeliane.
L'esercito, perdendo la faccia e venendo meno al suo mandato di protezione degli israeliani (insieme con l'intelligence, la polizia e il governo), ha raggiunto alcuni kibbutz dopo una giornata intera. Alcuni residenti miracolosamente salvi, nonostante le bombe sulle loro case e centinaia di granate contro finestre e muri, sono rimasti sepolti per 72 ore dentro un rifugio blindato, addirittura sottoterra scavando una buca e respirando con una cannuccia, prima che i militari riuscissero a uccidere i miliziani.
Al festival musicale Nova, nella foresta di eucalipti vicina al kibbutz di Beeri, più di 350 giovani sono stati massacrati. I primi soccorritori hanno trovato mucchi di cadaveri, donne stuprate e poi bruciate, lasciate per sfregio con le gambe aperte. I morti quel sabato 7 ottobre sono stati 1.200 tra civili e militari, gli ostaggi portati via 250. Novantasei sono tuttora da qualche parte nella Striscia.
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