Il responsabile delle forze armate israeliane chiede un cambio di passo al suo governo per chiudere la dolorosa partita degli ostaggi. Viste le pesanti perdite inflitte a Hezbollah e Hamas, secondo Yoav Gallant, è arrivato il momento di "dolorose concessioni" al nemico, pur di riportare tutti a casa. Diplomazia e non solo bombe, è il suo appello, che arriva nel giorno in cui il capo del Mossad David Barnea torna a Doha per riprendere le fila del negoziato per una tregua a Gaza.
Il ministro della Difesa si rivolge soprattutto a Benyamin Netanyahu, con cui si è scontrato più volte sui modi di portare avanti le operazioni nella Striscia. Ma il premier in questo momento pensa a incassare l'ultimo successo contro l'Iran, rivendicando di aver raggiunto tutti gli obiettivi nel raid di sabato notte. A Teheran invece il regime mantiene la linea della cautela, tenendo coperte le sue carte. L'attacco "non va sminuito ma nemmeno ingigantito", è la prima presa di posizione pubblica di Ali Khamenei.
La distanza crescente tra i due pesi massimi dell'esecutivo israeliano è emersa plasticamente in occasione di una cerimonia a Gerusalemme per commemorare le vittime del 7 ottobre. Gallant è partito dal presupposto che "nel sud Hamas ha cessato di agire come struttura militare, mentre nel nord Hezbollah continua a subire colpi e la sua leadership è stata eliminata, la maggior parte del suo arsenale missilistico è stato distrutto e le sue forze si sono ritirate dal confine". In questo quadro, e dopo oltre un anno di ostilità, il ministro della Difesa ritiene che "non tutti gli obiettivi possano essere raggiunti solo con operazioni militari". Da qui la necessità di fare "dolorose concessioni per riportare a casa i nostri ostaggi", ha sottolineato Gallant di fronte alla platea delle loro famiglie.
Proprio i parenti delle vittime del 7 ottobre hanno interrotto più volte l'intervento di Netanyahu urlandogli contro. Per contestare la sua linea fin qui intransigente con Hamas, che avrebbe ostacolato un accordo per un tregua con il conseguente scambio di prigionieri. Le chance di una svolta su questo dossier vengono esaminate ancora una volta a Doha, dal responsabile del Mossad, dal capo della Cia e dai mediatori egiziani e qatarini. Proprio dal Cairo il presidente Abdel al Sisi ha proposto un mini-cessate il fuoco di due giorni con il rilascio di quattro ostaggi, poi una ripresa dei negoziati 10 giorni dopo per provare a chiudere un'intesa permamente. Di una tregua breve parlano anche i media israeliani, secondo i quali Hamas resterebbe invece ferma sulla sua posizione: fine completa delle ostilità e ritiro dell'Idf.
In attesa di una svolta si continua a combattere e a morire. Le vittime a Gaza sono state 45 in un solo giorno, mentre al Jazeera - che Israele accusa di impiegare giornalisti che operano come agenti di Hamas - ha denunciato l'uccisione di tre reporter nelle ultime 24 ore. Sarebbero 180 dall'inizio della guerra. I morti sono aumentati anche in Libano.
Sul fronte iraniano, il giorno dopo l'operazione "Giorno del pentimento", Israele ha reso noto di aver provocato danni significativi agli obiettivi strategici del nemico, che avrebbero minato le difese e la capacità di produrre missili. A Teheran al contrario la linea della leadership resta quella di miminizzare. Khamenei ha detto semplicemente che si deciderà la reazione appropriata, basandosi sull'interesse del Paese. Stesso concetto espresso dal presidente Masoud Pezeshkian, che però ha precisato: "Non vogliamo la guerra, noi rispondiamo a qualsiasi atto di follia con prudenza e intelligenza". E la "prudenza" potrebbe portare a chiuderla qui, per non essere trascinati in una guerra a tutto campo quasi impossibile da vincere.
Nonostante l'insistente pressing dei falchi, in parlamento e tra i Pasdaran. E così in questa fase il regime preferisce insistere sulla pressione diplomatica nei confronti del rivale: Teheran ha chiesto e ottenuto per domani la convocazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
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