La disputa tra le compagnie di
car sharing e i loro autisti passa da Sacramento a Washington.
Nel lungo braccio di ferro cominciato in California, lunedì è
scesa in campo la Corte Suprema, che ha rigettato il ricorso con
cui Uber e Lyft chiedevano di bloccare la causa per il pagamento
degli arretrati a decine di migliaia di conducenti.
Quattro anni fa, il procuratore generale e il commissario per
i diritti dei lavoratori dello stato a guida democratica avevano
stabilito che era sbagliato considerare gli autisti come dei
lavoratori autonomi e che Uber e Lyft dovevano considerarli come
dei dipendenti. Con questo passaggio di status, i lavoratori
hanno potuto chiedere risarcimenti retroattivi per i congedi di
malattia e i rimborsi spese non pagati. Alcuni l'hanno fatto
attraverso un arbitrato individuale, mentre lo stato ha fatto
partire una mastodontica causa per tutti i lavoratori.
Gli avvocati di Uber e Lyft sostengono che l'azione legale
dei magistrati californiani non sia valida, perché la legge
federale impedisce agli stati di fare causa per conto di
chiunque abbia acconsentito a gestire le eventuali controversie
con un arbitrato privato invece che nelle aule di tribunale. E
questo è quello che hanno fatto gli autisti (e anche i clienti)
di Uber e Lyft, quando per iscriversi alla piattaforma hanno
accettato i termini di servizio.
Con questa motivazione i colossi del car sharing hanno
cercato di bloccare la causa dello stato della California, prima
con un ricorso alla Corte Suprema di Sacramento e poi
rivolgendosi a Washington. Anche i giudici federali hanno
respinto il loro ricorso. "I magistrati dello stato della
California non stanno facendo causa alle aziende per conto dei
singoli autisti, ma in virtù delle leggi sul lavoro vigenti
nello stato", è il commento di Sacramento.
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