La tentazione c'è. Il desiderio anche e, per l'occasione, avrebbe già pronta la cravatta rossa che da novembre sfoggia in omaggio alla rielezione di Donald Trump.
Matteo Salvini potrebbe quindi essere a Washington il 20 gennaio al giuramento del presidente eletto degli Stati Uniti, che tra due settimane tornerà a guidare il paese. Al di là del ruolo da numero due del governo Meloni, Salvini parteciperebbe a nome della Lega o con una delegazione più ampia dei Patrioti europei, il gruppo parlamentare con cui è alleato a Bruxelles. Fonti leghiste riferiscono che se ne è discusso prima di Natale e se ne riparlerà la prossima settimana, chiarendo che non è tanto in dubbio il 'se' ma il come e in quanti possano andarci. Cioè se a livello di leader, capi delegazione o altri.
In ogni caso, sulla decisione di Salvini pesa l'eventuale presenza di Giorgia Meloni, ancora in standby nonostante l'invito personale che ha ricevuto da Trump e dalla figlia Ivanka. La presidente del Consiglio valuterà nei prossimi giorni. Complice un'agenda densa di impegni, la delicata vicenda internazionale della detenzione di Cecilia Sala che impegnano la Farnesina e Palazzo Chigi e, perché no, ragioni di opportunità politica per l'esecutivo. Specie nell'ottica di mantenere buoni rapporti con l'Europa di Ursula von der Leyen. All'Inauguration day Meloni rischia di essere la prima premier italiana a partecipare alla cerimonia di insediamento di un presidente americano e di trovarsi in solitaria tra i capi di governo europei o insieme all'ungherese Viktor Orban. Se invece Meloni restasse a casa, Salvini avrebbe campo libero. E potrebbe consacrare la sua vicinanza al tycoon, e quindi l'asse repubblicano-sovranista, allungando le distanze dagli alleati di governo in patria. Di certo non nasconde l'entusiasmo Roberto Vannacci, il generale eletto al Parlamento europeo con la Lega: "Se fosse possibile e impegni permettendo, mi farebbe molto piacere esserci. Vedremo".
Farebbe gola pure al vicepremier, che ha sempre espresso ammirazione e stima per Trump. Convinto, fin dal giorno della rielezione, della svolta che il successore di Joe Biden avrebbe portato su più fronti, dalla "lotta all'immigrazione clandestina alle radici cristiane e al ritorno alla pace", come twittò il 5 novembre. Azzardando perfino il Nobel della pace: "Confido nel fatto che Trump ponga fine a due guerre che sono devastanti - disse Salvini - Se riuscirà a riportare ordine, serenità e tranquillità fra Russia e Ucraina e fra Israele, Palestina e Iran, meriterà il Nobel per la pace". A parte l'incontro dei due nel 2016 a Philadelphia, a margine di un comizio di Trump per le primarie repubblicane e la telefonata a giugno, in solidarietà alle vicende giudiziarie del magnate, Salvini non ha avuto altre occasioni di faccia a faccia Oltreoceano. Chissà che, allora, non provi ad approfittare della trasferta del 20 gennaio per ritagliarsi lo spazio per un colloquio. Magari per quella missione negli Usa ventilata il 19 dicembre scorso dopo un vertice dei Patrioti a Bruxelles. "Abbiamo ragionato di una missione a Washington presto, della fine della guerra e di un alleanza tra i nostri movimenti giovanili", annunciò.
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