"Indietro non si torna", nel mondo del lavoro, dopo l'esperienza dell'epidemia da Coronavirus, che ha fatto (ri)scoprire le potenzialità dello "smart working", nella nostra Penisola: in meno di un trimestre, si è, infatti, saliti da 500.000 occupati già (più, o meno) "agili" ad "oltre 4 milioni di persone" che si son cimentate, spesso con propri computer e smartphone, in questa modalità di svolgimento degli incarichi, non potendo uscire di casa. E, sebbene i vantaggi non siano mancati (poiché la "macchina" produttiva è andata avanti, mentre si cercava di contenere la diffusione della malattia), è giusto riflettere adesso su come valorizzare lo strumento, rendendo la "flessibilità" appetibile, grazie ad un sempre più vasto ricorso alla "contrattazione aziendale su misura e paritetica, senza nessuna predominanza di una parte sull'altra", nella quale "lavoratore e datore di lavoro si incontreranno, insieme ai rappresentanti che conoscono bene i modelli organizzativi", attuando quella "bilateralità fondamentale per migliorare le loro condizioni". E per collocare "la persona al centro del progetto di sviluppo". A disegnare la mappa dello "smart working" che è stato finora praticato in Italia è l'indagine promossa dall'associazione datoriale Cifa, dal sindacato Confsal e dal fondo interprofessionale FonARCom e realizzata dal Centro studi InContra, nell'ambito dell'iniziativa #IlLavoroContinua, illustrata oggi, 24 giugno, sulla piattaforma digitale www.illavorocontinua.it; lo studio, che è stato compiuto su un campione rappresentativo di occupati, parte dal grado di adozione della modalità "agile", che è "più che raddoppiata, in seguito all'emergenza epidemiologica, tanto nel settore pubblico, quanto nel comparto privato", e si apprende che "tra i lavoratori che non vi hanno aderito, la principale motivazione addotta riguarda una scelta volontaria del dipendente stesso", giacché soltanto nel 30% dei casi, infatti, la causa è ascrivibile "alla mancanza di strumentazione idonea, mentre nel 22% dei casi si tratta di una decisione assunta a livello aziendale". Dati alla mano, il presidente di Cifa e di FonARCom Andrea Cafà osserva che "è attraverso la bilateralità che va costruito, nei territori, adesso, un nuovo patto aziendale", perché la crisi che stiamo vivendo impone un "cambiamento" di scenario: sarà fondamentale, dice, investire nella digitalizzazione, ma pure finalmente operare "una manutenzione delle competenze", mediante una formazione di qualità, che "avvicini le conoscenze tradizionali a quelle informatiche". Da questo percorso che dovrà esser avviato quanto prima, superando l'applicazione in molti casi "improvvisata" dello "smart working", ne è convinto, scaturirà una "semplificazione e ad una velocizzazione dei processi produttivi", che "lascerà più tempo alle persone per pianificare l'attività lavorativa". Da tempo, incalza, "stiamo lavorando in quest'ambito: abbiamo sottoscritto un accordo interconfederale, che tende al superamento del conflitto tra datore di lavoro e dipendente. La persona", in questo modo, "partecipa di più alla vita aziendale", e le parti "pianificano insieme la loro crescita", con "una efficiente formazione continua", conclude Cafà.
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FonARCom